Riflessione sul giornalismo in terra di mafia: l’informazione deve scendere in campo!

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Cosa significa fare informazione in terra di mafia? In nome della notizia si può essere equidistanti? Come ci dobbiamo comportare noi cronisti quando entriamo in contatto con “il mondo di sotto”?
L’intervista realizzata a uno spacciatore di Siracusa, pubblicata ieri sulle pagine da “La Sicilia” (dal titolo “Vendo la droga per necessità”), ci pone una  serie di interrogativi.

Il primo: è giusto dare la parola a coloro che delinquono? Si, è la risposta. Conoscere il punto di vista del soggetto criminale, in questo caso, è importante perché ci fa conoscere dall’interno quel sistema che altri soggetti istituzionali devono contrastare e sanzionare. L’informazione è, dunque, fondamentale.
E ben vengano interviste e inchieste sul mondo dello spaccio a Siracusa.
Non poniamo il problema della par condicio, cioè della necessità di dare in contemporanea la parola all’altra campana, in questo caso, gli investigatori o gli inquirenti (polizia, carabinieri, guardia di finanza, magistrati) e non è neanche con la domanda insinuante o cattiva che teniamo fede al nostro ruolo sancito dall’articolo 21  della nostra Costituzione. Ma quello che non possiamo accettare è che al termine della lettura dell’intervista si possa giustificare, comprendere, le ragioni del “migliore” sulla piazza.
Sul tema della mafia e della legalità non si può abdicare. Non esiste la neutralità, il giornalismo ha bisogno, per essere credibile, di indipendenza che non deve voler dire nè con la mafia nè con l’antimafia, ma con le vittime, ovvero con chi ha perso padri e madri, fratelli e sorelle, proprio per combattere quel mondo illegale – e mafioso – che non si può né ridurre né, tantomeno, giustificare.
Nel merito, poi, ci permettiamo di far presente come le mafie abbiano sempre sfruttato la droga come prima voce nel registro dei guadagni.
Dire che i clan non c’entrino nulla con lo spaccio è un pericoloso (e giustificativo) falso storico. E’ vero che lo afferma “Pippo”, ma la storia giudiziaria recente dice altro. Basterebbe soltanto prendere le ultime operazioni delle forze dell’Ordine per comprendere come la droga che viene spacciata a Siracusa arrivi dalla Calabria, da Palermo o da Catania e sempre dai clan.
Certamente non cade dal cielo, o no?

E neanche si può assumere come chiave di lettura del fenomeno dello spaccio delle sostanze stupefacenti il bisogno di lavoro.
Esistono, purtroppo, migliaia di persone a Siracusa che hanno sofferto e soffrono la crisi economica, che non hanno lavoro ma che per questo non delinquono.
“Pippo” – o “Pluto” o “Cesco” – non sono eroi, deve essere ben chiaro.
Noi, invece, dobbiamo informare e convincere quella zona grigia dell’opinione pubblica che non denuncia, che ha paura del mondo di sotto, a scendere in campo. Dobbiamo denunciare quei rapporti fra politica e mafie, quei silenzi striscianti, quel tentativo di scambiare il “diritto” con il “favore”, senza mai arretrare, né per paura né, tantomeno, per convenienza di “quieto vivere”.
E fino a quando l’informazione, tutta l’informazione,  non scenderà in campo in questa battaglia avremo tutti perso.

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