Turchia, Corte Costituzionale dispone scarcerazione per il giornalista Alpay e l’editorialista Altan ma tribunale penale frena: no a libertà fino a pubblicazione sentenza

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La gioia per la notizia arrivata nel primo pomeriggio di ieri, quando la Corte costituzionale turca ritenendo incostituzionali i motivi alla base del loro arresto ha ordinato il rilascio del giornalista Sahin Alpay e dell’economista e editorialista Mehmet Altan, fratello dello scrittore Ahmet anch’egli in carcere da mesi, è stata oscurata dalla decisione dei giudici del tribunale penale di Istanbul di non procedere alla scarcerazione fino a quando la sentenza non sarà pubblicata.
Facile capire il perché. Il presidente Recep Tayyip Erdogan, promotore della stretta post-golpe fallito nel 2016, pur non potendo ignorare le disposizioni dell’Alta Corte, ha voluto mettere in chiaro che lui, solo lui, ha il potere di decidere della libertà di chi non si piega al suo volere.
Entrambi gli imputati sono detenuti per sospetti legami con la rete del presunto ideatore del push sventato Fethullah Gulen. Ieri le toghe che difendono la Costituzione hanno sancito che la carcerazione di Altan e Alpay violava i loro diritti.
E per questo il ‘sultano’ non potrà impedire a lungo che la sentenza sia attuata e cambi in qualche modo la giurisprudenza turca.
Questa decisione rappresenta una speranza per tutti gli altri giornalisti in carcere e per le 51 mila persone imprigionate anche solo per avere usato un’applicazione di messaggistica utilizzata dai militari golpisti la notte del tentativo di colpo di stato.
Una seconda batosta per il presidente turco di ritorno dalla visita ufficiale in Francia dove l’omologo francese Emmanuel Macron ha assunto una posizione forte sulla repressione attuata dal governo turco dopo il fallito golpe del 2016.
L’inquilino dell’Eliseo non ha esitato a sottoporre al suo ospite, a margine dell’incontro con all’ordine del giorno le relazioni tra i due paesi, il conflitto siriano e lo lotta al terrorismo, sia la questione dei operatori dell’informazione imprigionati per impedirgli di svolgere il proprio lavoro, sia quella delle violazioni dei diritti di decine di migliaia di cittadini finiti in carcere o licenziati nell’ultimo anno e mezzo solo sulla base di sospetti.
Parlando alla conferenza stampa al termine del meeting a Parigi, Macron ha ribadito quanto promesso all’appuntamento per gli auguri di fine anno con i giornalisti francesi affrontando l’argomento con rispetto ma mostrando fermezza come era già avvenuto in occasione della trattativa per la liberazione di due connazionali, il fotoreporter Mathias Depardon e lo studente di giornalismo Loup Bureau, fermati l’anno scorso mentre lavoravano nel sud-est della Turchia dove l’esercito stava combattendo i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan.
Il presidente francese partendo dall’auspicio che la Turchia non disattendesse oltre la Convenzione europea dei diritti umani, pena il prolungamento dell’attuale contesto che non consente “alcun progresso” in termini di adesione di Ankara all’Ue, ha evidenziato con chiarezza che senza passi in avanti in tal senso non sarà possibile aprire nuovi capitoli nel processo di integrazione europea.
Per la prima volta, dunque, un leader dell’Unione abbandona la strategia dell’ipocrisia che tutto tiene sospeso e nulla permette di evolversi, in un senso o nell’altro.
Il tutto mentre il nuovo anno in Turchia è iniziato come era finito il 2017, con una raffica di arresti di presunti appartenenti alla rete di Fethullah Gulen, considerato la mente del tentativo di colpo di stato.
In Francia è apparso chiaro a tutti che Erdogan non avesse alcuna intenzione di recedere dall’imposizione del bavaglio ai media turchi liberi, che già prima del tentativo di golpe aveva portato alla chiusura di giornali e emittenti televisive oltre che alla detenzione di decine di operatori dell’informazione. Basti pensare alla violenza aggressione verbale a un giornalista di Envoyé Spécial che gli aveva rivolto una domanda sull’inchiesta di Cumhuriyet sulle presunte armi fornite dagli 007 turchi ai ribelli in Siria.
“Tu parli come un terrorista di Feto” è stata la risposta sprezzante del leader turco il quale ha poi aggiunto che “il terrorismo non nasce da solo, ci sono anche i ‘giardinieri’ del terrorismo: uomini di pensiero, di idee, che scrivono nei giornali. Sono loro che portano l’acqua al mulino del terrorismo“.
Gli ultimi dati sulla repressione della libertà di stampa in Turchia parlano di 309 giornalisti arrestati dopo il putsch fallito, secondo il sito web Turkeypurge, mentre per gli organismi internazionali, come Committee to protect journalist e Free Journalists Initiative i colleghi ancora dietro le sbarre in attesa di processo sarebbero almeno 65.
La maggior parte è accusata di complicità con i golpisti o di aiutare organizzazioni terroristiche.
Dal luglio 2016 ad oggi nelle galere turche sono finite oltre 50mila persone che a breve saranno costrette a indossare divise carcerarie diverse da quelle dei detenuti comuni, simili a quelle utilizzate a Guantanamo.
L’ultima serie di mandati di arresto, ha interessato ben 130 sospettati.
La Procura della città di Konya, nel centro dell’Anatolia, ha emesso ordini di cattura per 70 presunti affiliati di Feto in 27 province, in contemporanea con l’ufficio del Procuratore capo di Ankara che ha fatto scattare altrettanti arresti.
Oggi, intanto, riprende il processo a Selahattin Demirtaş e altri 11 deputati dell’Hdp. L’udienza dello scorso 7 dicembre era stata rinviata dopo che i giudici avevano deciso che dovessero restare tutti in prigione.
Il leader di Hdp, in carcere dal novembre del 2016, è accusato di ‘guidare’ un’organizzazione terroristica e di collaborare con il PKK.
Rischia fino a 142 anni di carcere.
Accusa che appare ancor più paradossale a fronte dell’annuncio, nei giorni scorsi, delle sue dimissioni da co-presidente del principale partito di opposizione della Turchia.


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