“Il libro degli amici” – di Elio Pecora

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Cinquanta anni a Roma. Mezzo secolo, un’intera vita. Trascorsa tra i libri e gli amici letterati, quella comunità artistica di cui tante volte abbiamo letto o sentito raccontare con una punta di invidia perché a noi, ai più fortunati di noi, non sono restate che le briciole. Per le generazioni più recenti i celebri personaggi che illustravano la Capitale negli anni ’60 e ’70 sono soltanto nomi scoloriti, titoli di libri in fila negli scaffali, un mondo indistinto di fantasmi. Che pure hanno segnato una stagione irripetibile. Si intitola “IL LIBRO DEGLI AMICI”  l’accattivante volumetto appena stampato da Neri Pozza, in cui il poeta Elio Pecora dischiude lo scrigno dei ricordi, illumina la affollata galleria dei ritratti, aggirandosi con vago spaesamento nelle sale, per la maggior parte vuote, di tanta vita vissuta che ora gli sfuma tra le mani: “Scrivo su fogli rigati, in un giardino lontano da Roma. Giova alla scrittura la lontananza. Forse qui sarà possibile scrivere di anni che si presentano vuoti e confusi. Li ho abitati fino a ieri e ierlaltro, li ho camminati, dormiti, mangiati. Che pretendere di più che afferrare un lembo, raccoglierne un’eco, un riflesso?”

Il libro è un bagno di intelligenza, un toccasana confortante per chi c’era e per chi non c’era; una canzone suadente e piena di grazia, intonata con voce soave (non va dimenticato che lo scrittore è anche un cantante assai versato, in grado di allietare le cene degli amici).

A Roma, a piazza di Spagna angolo via delle Carrozze, c’era una libreria leggendaria, la Libreria Bocca, specializzata in arte ma non soltanto,  che fino a tutti gli anni Ottanta è stata il crocevia immancabile degli intellettuali, artisti, scrittori, che gravitavano nella Capitale.

“Terzo e ultimo impiego, il più durevole della mia vita e il più fruttuoso di esperienze, lo affronto nella libreria Bocca di Piazza di Spagna. Sono in diversi gli aspiranti, veniamo scelti in due, a condizione che, di lì a due mesi, ne resti uno solo.”

Pecora era uno degli addetti alle vendite, presto salito di rango a genius loci e gran suggeritore di titoli per acquirenti esigenti e di estro variegato:

“Dunque solo a Roma e nella libreria Bocca, scopro in me una notevole propensione mondana e un’insaziabile curiosità”.

In quel nido profumato di carta stampata, intrattiene a tu per tu scrittori molto celebrati: Goffredo Parise, Natalia Ginzburg, Gianna Manzini “inappuntabile negli abiti pastello e nel trucco del volto”. Giorgio Bassani, “che ha toni da maestro esigente”. Fellini che “ha voce tenera, chiede acqua fresca, sfoglia libri d’arte, sparisce dalla porta di via delle Carrozze”.

Non sono le uniche apparizioni. Un mattino di primavera al di là delle vetrine si materializza Brigitte Bardot, “dentro un nugolo di fotografi”.

Pecora, classe 1936, era approdato nell’Urbe poco più che ventenne, dopo l’università a Napoli e un soggiorno di formazione in Germania:

“Nel settembre 1966 vengo a Roma per fermarmi. Lascio Napoli e mia madre; parto con il denaro ricavato dalla vendita, al quarto del prezzo, dei miei libri più pregiati”.

In breve tempo, poeta e scrittore egli stesso, si afferma come collaboratore di giornali e riviste specializzate nel campo letterario, assiduo del terzo programma della RAI e grazie a un ampio ventaglio di frequentazioni stringe legami con i maggiori autori dell’epoca; di alcuni, conosciuti per lavoro, diventa in seguito autentico amico. Nel libro le loro figure disegnano una precisa costellazione, uranica ma non irraggiungibile, anzi a portata di mano. Attilio Bertolucci abita in via Carini: “Sorride stringendo le palpebre. Discorre con voce piana, convocando le parole”. A Giorgio Caproni l’Accademia dei Lincei ha assegnato il Premio Feltrinelli, e la cifra elargita è considerevole: “La Spaziani propone di chiamarlo. Alle mie congratulazioni Caproni risponde che sulla somma del premio grava un’imposta eccessiva. E’ già afflitto dalla diminuzione”.

Le numerose spigolature sono affilate, irresistibili; ma i capitoli più corposi riguardano gli scrittori di maggiore intimità, Wilcock fra tutti, il suo amatissimo mentore. Il poeta argentino, anche scrittore, ingegnere, traduttore e chissà cos’altro, abita al Mandrione, in via Demetriade, uno dei quartieri più malfamati della Capitale, lungo i resti dell’antico Acquedotto Romano, superata Porta Furba: “Porta giacche più grandi della sua misura, di lana inglese, comprate sui banchi di via Sannio. Vengono di lì anche le scarpe, con suole di cuoio, precisa, come non se ne fanno in Italia dove si bada solo all’apparire. Spesso calza stivali di gomma o scarpe da ginnastica – che ne rendono ondulata l’andatura”.

Grazie a lui, elenca l’autore, “entrano nella mia vita Elsa Morante, subito dopo Bellezza, Moravia, Amelia Rosselli, Palazzeschi, Elsa de’ Giorgi, Penna, Francesca Sanvitale”.

Elsa Morante: “Autrice di libri sconfinati, ama la poesia di Penna e i romanzi di Tanizaki. Anarchica accanita, quando Moravia le chiede timidamente il divorzio risponde sprezzante che il loro matrimonio in chiesa solo Dio può scioglierlo”.

Alberto Moravia: “Parla della moglie con ammirazione sconfinata per la romanziera, con sconcerto per il carattere aspro e l’acceso manicheismo.”

Durante l’estate Pecora e il suo compagno Glauco (Pretolani) affittano un appartamento a Sabaudia e “di mattina, poco dopo le nove, raggiungiamo in auto la villa costruita da Ferretti (Dante, il valente scenografo ndr) e divisa a metà con Pasolini. (…) A Sabaudia compriamo pesce, verdure, mozzarelle, e i giornali. Sostiamo al bar per il caffè e per minuscoli cannoli alla crema. E’ in libreria da qualche settimana 1934 e abbiamo appena letto sul Messaggero una critica del romanzo più rozza che negativa. Moravia mi chiede di firmare con lui una cartolina di saluti al «critico»”.

Pasolini: “ A metà ottobre del 1975, dopo aver cenato in casa di Moravia, Pasolini annuncia con la  sua voce gentile di dover andare, aggiunge che ogni sera rischia la vita. Ad Alberto, in quello stesso  pomeriggio ha detto di essere stato assalito e minacciato poche notti prima nei pressi di Anzio.”

Di Moravia il memorialista compone un giudizio che possiede la forza di un apoftegma:

“Opponendosi ai patimenti del corpo e a quelli della mente e del cuore è andato costruendosi di giorno in giorno, di pagina in pagina, una vita colma di vita”

Acuto e corposo il capitolo su Sandro Penna, che Pecora incontra dopo aver pubblicato su “Tempo Illustrato” un articolo intenzionalmente dedicato all’analisi della sua poesia e non al personaggio stravagante e pittoresco. Da quel momento andrà a trovarlo ogni giorno nella casa in via Mola de’ Fiorentini: “Al quarto piano del vecchio edificio, sulla porta il suo nome, chiede più volte chi lo cerca. Leva paletti e chiavistelli. Indossa una maglia intima e una mutanda lunga fino ai polpacci, entrambe di lana ocra. Faccia rasata di fresco, capelli lisci, lucidi di brillantina.”

Elsa de Giorgi: “Davanti allo specchio s’ammantella con la foga di un cavaliere seicentesco ed esce dalla stanza con passo fiero, assai poco femmineo. La Bradamante del Cavaliere inesistente di Calvino.” “A una festa, mentre balla con Visconti, vede la Morante avvicinarsi e tentare di spegnerle la sigaretta sulla scollatura”. Gelosa e invaghita, così inopportunamente, del Conte!

Di Paola Masino mi piace ripescare un paradosso ricolmo di verità impronunciabile seppur di facile condivisione: “Con le sue asprezze, ripeteva che era finito il tempo dei grandi scrittori perché era finito il tempo dei camerieri. Tutti promossi o tutti ridotti a servi di se stessi.”

Francesca Sanvitale. Pecora ne stende a quattro mani  una biografia conversativa intitolata “La scrittura e la vita” in cui si trova questa perla purissima: “Chi racconta si porta dentro un forziere colmo di tutto quanto ha visto, vissuto, immaginato. Lo scrittore è il custode di quel forziere”.

Sugli altri dei dell’Olimpo il lettore sbriglierà a piacimento la propria curiosità, con sottile profitto. Elio Pecora, poeta di ogni riga a cui mette mano, anche quando non scrive versi,  ha modellato un singolare congedo caleidoscopico e malinconico. Senza mai rinunciare all’ironia e al divertimento. Nell’ultimo capitolo del libro intitolato “Una possibile chiusa”, affiora tuttavia una stanchezza esistenziale difficile da decifrare anche per chi lo conosce; perché camuffata con garbo dietro una eleganza di portamento che è, ancor prima, mentale; di uomo eletto, di mondo, capace di stare in società, brillante nelle riunioni, spiritoso, speziato nei ricordi, assorto nelle riflessioni. Il corteggiamento della propria stanchezza è anch’esso poesia, che si espande vaporosa e inebriante a ogni voltare di pagina.


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