Auschwitz-Birkenau. La vergogna dell’umanità

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In una giornata di ottobre, a 72 anni dalla fine dello sterminio, ci ritroviamo a Katovice, cittadina mineraria vicina ai campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Uno di quei viaggi rimandati come un appuntamento doloroso che non vuoi vivere.
Sono le 12.15 quando insieme ad una guida polacca iniziamo il cammino attraversando le strade in cui migliaia di esseri umani sono stati calpestati nei diritti, distrutti da un vento di pura follia di cui si deve scrivere per sempre.
Varcando il cancello gli occhi si alzano al cielo, grigio, quasi a preparati moralmente a vivere una delle pagine della vergogna dell’umanità più grande, per leggere parole che risuonano come uno scherno, IL LAVORO RENDE LIBERI.
Auschwitz è nell’immaginario di tutti il campo di  sterminio simbolo dell’Olocausto.
In realtà  fu costruito  come campo di concentramento e di smistamento dei prigionieri polacchi. Auschwitz era inizialmente un campo di concentramento che poi vide il sorgere di un secondo ed un terzo campo, Birkenau e Monowitz, e altri campi ancora. Con i sottocampi Auschwitz nel 1945 arrivò a contare almeno 50 altri piccoli luoghi di concentramento e poi di sterminio di massa in cui furono deportati centinaia di migliaia di anime.

Tante sono le informazioni che la guida ci fornisce, ma metterle insieme in un ordine di importanza non è semplice. Sono come tante coltellate nell’anima, scuotono la coscienza e fanno pensare solo ad una domanda
Perché?
Perché è accaduto? Perché nessuno lo ha impedito? Perché qualcuno nega ancora? Perché nei nuovi venti di estrema destra non si torni a  ricordare questa vergogna per evitare di alimentare nuovi odi razziali?
Per raccontare devo scrivere ogni parola che non trovero’ su internet, e chiedo di fotografare ciò che resta. E chi fotografa lo fa con fatica, perché non trovi il senso di tutto questo, e in certi  luoghi non puoi fotografare, come dentro le camere a gas o davanti ai forni crematori. E non fotograferesti lo stesso perche’ non tutto puoi mostrare. E certi dolori irrigidiscono anche le mani.
Cosi raccolgo in ordine sparso ciò che non sapevo, non ricordavo, non avrei letto.
Il 20 gennaio del 1942 a Berlino si tenne la conferenza in cui venne decisa la soluzione finale, lo sterminio degli ebrei. In quell’anno iniziano le deportazioni di ebrei.

La Polonia era la piu popolosa comunità di ebrei in Europa. Dai ghetti cominciarono a deportare uomini, dinne e bambini verso Auschwitz. I viaggi duravano giorni e giorni. I deportati arrivavano ai campi, venivano selezionati. Disabili, anziani, donne incinte, bambini venivano invitati a fare le docce , lasciando abiti e cose personali nello spogliatoio, illudendoli che fosse realmente una doccia dopo il lungo viaggio, mentre si consumava la tragedia di una assurda e crudele morte per mezzo dello ZYKLON  B, gas mortale che penetrava attraverso fori in alto al soffitto.
Cosi, nudi, morivano un milione e mezzo di ebrei, tra  le urla di chi moriva per primo perché respirava piu forte. Gli altri , quelli abili al lavoro, o i bambini da sottoporre ad esperimenti ( come i gemelli, noti per gli esperimenti  del tedesco Mengele) marciavano verso le baracche.
Li avrebbero vissuto mesi duri, senza mangiare se non minestre di acqua sporca, chiodi, pane da dividere tra decine di compagni, dormendo per terra, in 14 in un letto a castello, lavorando duramente, senza scarpe, senza coperte, colpiti a morte se si fermavano, fucilati se tentavano la fuga, privati della dignità, rasati, umiliati, torturati.

La guida parla mentre passiamo davanti a montagne di capelli…invecchiati. Erano quelli rasati alle donne con cui i tedeschi facevano tessuti, materassi. E poi occhiali, tanti, che hanno visto orrori e hanno pianto insieme ai loro occhi, chiusi. E valige di pelle e cartone con nomi e date, in cui in 15 minuti i deportati raccoglievano la loro vita. Li, accatastate, e poi  scarpe, scarpe…e spuntano le scarpe rosse da donna.
Torna alla mente la scarpa rossa che rappresenta oggi il simbolo della lotta alla violenza contro le donne. E quelle donne chi le ha protette? Mentre venivano rasate, spogliate, maltrattate, private dei figli, uccise.
Poi il percorso porta alle camere a gas. AUSCHWITZ 1 conserva intatta la prima camera a gas, ed i forni crematori, ricostruiti ma con gli elementi in ferro originali. Li si consumavano gli ultimi scampoli della miseria umana del nazismo, con i corpi umani bruciati.
A Birkenau erano le altre 4 camere a gas e esterne poi ve ne erano altre 2.
7 in tutto. Per bruciare esseri umani.

I numeri su Auschwitz sono noti. Li troverete su internet. Io ne ricordo solo alcuni.
60mila esseri umani sono sopravvissuti. 232mila bambini sono morti.
Nel 1944 i tedeschi iniziarono a smantellare i campi, cercando di distruggere le prove dell’esistenza di Auschwitz. Il 20 gennaio 1945 furono fatte saltare in aria due camere a gas a Birkenau.
Nelle marce della morte furono fucilati 15mila esseri umani. Ad Auschwitz morì San Massimiliano Kolbe.
Nel 1947 lo stato Polacco decise di fare di questi campi un museo in memoria. dell’Olocausto.
La giornata intanto vede spuntare il sole, un tramonto che tenta di scaldare il cuore e di asciugare gli occhi umidi di molti di noi.
E le foto del saluto rispettoso di un luogo sacro nei pressi del quale  è vietato fare feste, vendere alcolici, diventano piu calde. Quasi una speranza…che raccontandone le emozioni e le lacrime nessuno osi dimenticare.
Ricordare resta l ‘ unica via per non ripetere la follia che si annida nei vecchi e nuovi odi razziali.
La giornata della memoria , 27 gennaio , perché fu in quel giorno del 1945, giorno in cui i sovietici giunsero  nel campo, diventi punto di partenza per educare al rispetto della dignità dell’uomo.

Auschwitz non è un racconto. È una lama che ferisce ogni volta che spirano nuovi venti  di odio. Ti cambia dentro.
Le note di un’orchestra lontana sembrava suonare ancora tra le strade del campo, sotto quel vagone vuoto, che ha portato migliaia di vite umane e storie li dove oggi restano i ricordi.
E la musica scalda solitaria l’anima. S’alza il vento.

Foto Vincenzo Aiello


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