Al di là della sentenza “mondo di mezzo”: a Roma la mafia c’è (comunque)

0 0

Locali ed attività commerciali sequestrati, droga a fiumi, estorsioni, investimenti di ogni consorteria criminale e mafiosa. Non stiamo parlando di Palermo, Reggio Calabria o Napoli. No, stiamo parlando di Roma.

La sentenza su “Mondo di mezzo” (perché il nomignolo “mafia capitale” è un’acuta invenzione giornalistica e non della Procura capitolina) ieri ha inflitto pesanti condanne per 250 anni complessivi di carcere a 41 dei 46 imputati e confermato la bontà delle tesi accusatorie della procura, relativamente al pericoloso verminaio sistemico, criminale e corrotto, in grado di influenzare negativamente la vita politica, amministrativa, economica e sociale di Roma.

Così i giudici, pur confermando l’esistenza di due diverse associazioni, ha escluso sia l’associazione mafiosa, sia l’aggravante del metodo mafioso.

Intanto, però, è bene precisare che la sentenza riguarda la contestata organizzazione mafiosa capitanata da Buzzi e Carminati, non la presenza nella Capitale di mafie di ogni tipo: da quelle siciliane, a quella calabrese, passando per la camorra e le mafie straniere (quella cinese, ad esempio).

Quindi brindare dicendo che “la mafia a Roma non c’è” è tecnicamente sbagliato ed espone la già malata Capitale ad un nuovo possibile radicamento di mafie (si badi bene: dove c’è negazione, c’è terreno fertile).

Nel merito della sentenza di ieri: le sentenze si rispettano, piacciano o non piacciano. Fatta questa ulteriore premessa, va spiegato che oggi, come detto da diversi esperti (il procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti e don Lugi Ciotti su tutti), la corruzione è l’altra faccia della stessa medaglia della mafia. Oggi le mafie si servono dell’arma corruttiva per imporre la propria forza intimidatoria, esattamente ciò che Buzzi, Carminati e sodali hanno fatto a Roma.

Tanto è vero che la Suprema Corte di Cassazione nell’aprile del 2015 aveva confermato il carcere preventivo per gli imputati, ritenendo giusta l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Gli ermellini nel 2015 ritennero che, ai fini della configurabilità del reato di associazione mafiosa, bastino la “forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo dalla quale derivano assoggettamento ed omertà”. Condizioni presenti nell’organizzazione criminale romana.

Oggi, però, ci ritroviamo dinanzi ad una sentenza di primo grado che fa cadere l’associazione mafiosa e persino il metodo mafioso.

Così non esiste una mafia autoctona romana, solo una grande “matriciana” di corrotti e corruttori, politici e funzionari infedeli che cedevano a delinquenti abituali e senza scrupoli.

In attesa delle motivazioni, la sentenza però, al netto dei festeggiamenti di alcuni stolti che pensano di poter sfruttare un pronunciamento (importante e legittimo) per nascondere la polvere sotto il tappeto all’ombra del Colosseo, dovrebbe fare riflettere su cosa siano diventate oggi le mafie, non solo al sud, e sui nuovi strumenti (anche giuridici) che il legislatore potrebbe offrire ai Giudici. Perché nelle associazioni (semplici o mafiose che siano) riconosciute dal Tribunale di Roma, assoggettamento ed omertà sono presenti. E se sono presenti, come ricordava la Cassazione nel 2015, qualcosa vorrà dire.

Ed infine la sentenza dovrebbe far comprendere come mafie e corruzioni varie non potranno essere sconfitte totalmente se combattute soltanto dagli apparati investigativi, Giudici e Forze dell’Ordine, bensì da una coscienza civica che non faccia il tifo per una sentenza (di assoluzione o condanna). Le mafie saranno sconfitte dal “fresco profumo della denuncia” quando esso si contrapporrà al “puzzo del compromesso”.

Perché le mafie si annidano dove nessuno le va a cercare e hanno la capacità di cambiare volto, sembianze e peculiarità: siamo sicuri di saperle riconoscere prima che sia troppo tardi?


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21