Morti di stato

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Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Carlo Giuliani, Franco Mastrogiovanni, Riccardo Rasman, Giuseppe Uva, Giulio Regeni, non sono una serie di nomi, un elenco. Queste storie sono conosciute dall’opinione pubblica quasi esclusivamente perché i parenti delle vittime oltre al dolore si devono sobbarcare lo sforzo di stimolare chi deve indagare sulle cause del decesso del loro caro. Famiglie che si devono prendere carico non solo del loro dolore ma anche dell’impegno costante per fare sì che la giustizia si occupi dei loro casi.

In tutto il mondo, nei luoghi dove ho avuto la fortuna di andare, ho incontrato genitori o fratelli che oltre a portarsi dentro un grande dolore hanno anche il gravoso impegno di ricordare ogni giorno ciò che hanno subito. Se a causare la morte di queste persone è lo Stato, o chi lo rappresenta, diventa una scalata ottenere giustizia. In tutto il mondo è così.

La maggior parte, nonostante l’impegno, non riesce ad arrivare a questo risultato. Ho incontrato madri e nonne in Argentina, di desaparecidos, che ancora oggi non si sa che fine abbiano fatto. Lo stesso vale per le madri degli studenti scomparsi di Ayotzinapa in Messico o degli uccisi nelle favelas del Brasile.

Commoventi anche le storie di madri di desaparecidos del mare, ragazzi che soprattutto dalla Tunisia cercavano di arrivare in Italia con imbarcazioni di fortuna. Indagini, incontri pubblici, campagne, sono loro il motore di questa continua ricerca di verità.

Cosa cambia nella vita di queste persone dal momento in cui si verificano questi drammatici eventi? Umanamente, oltre al dolore incommensurabile, cosa succede a queste persone?

Oltre alla condanna di non potere rivedere più il proprio caro c’è anche quella di non essere ascoltati. Questo vale in tutto il mondo. Anche in Italia, quindi, dove non c’è ancora una legge che definisce e punisce la tortura, e molti di questi morti hanno subito violenze che solo così si possono definire.“Per avere qualsivoglia risposta bisogna rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Non si può sperare che indagini, perizie e processo, se si arriva da averne uno, abbiano un loro corso naturale senza una continua sollecitazione” racconta Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. “C’è stato riconsegnato in condizioni atroci”. Se si arriva a un processo, sottolinea Ilaria, “si è davvero fortunati. Ma il più delle volte poi capita che sul banco degli imputati ci finisca la vittima stessa”.

Il caso di Stefano Cucchi è uno di quelli che più ha colpito l’opinione pubblica. Le immagini del corpo martoriato, sapere che quegli abusi si sono consumati dentro le pareti di strutture dello Stato hanno fatto il resto. Le parole di Ilaria Cucchi ci servono per ricordare non solo il suo caso ma anche tutti, quelli conosciuti o meno, che come la sua famiglia, vivono questa stessa dimensione. Famiglie a cui viene negato perfino il diritto al dolore.


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