Equo compenso giornalisti autonomi, Cassazione conferma il diritto e il metodo

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Giornalisti autonomi, nuova sentenza sull’equo compenso. La Cassazione si pronuncia sulla determinazione per via giudiziaria in caso di pagamenti troppo distanti da parametri di equità, applicando l’articolo 2233 del codice civile. L’Ordine dei giornalisti ancora senza tabelle ministeriali dei compensi, emanate invece per le altre professioni sin dal 2012. Altra sentenza del Consiglio di Stato conferma l’illegittimità sia delle tariffe approvate nel 2014 senza alcun criterio di coerenza che della decisione di limitarne l’ambito di applicazione: l’equo compenso è un diritto di tutti i giornalisti.

Una recentissima sentenza della Cassazione ha riproposto il tema dell’equo compenso del lavoro giornalistico autonomo. Si tratta della sentenza della Corte di Cassazione, sezione Lavoro, del 1 giugno 2016 n. 11412, che nell’adottare per una collaborazione prestata dal 1995 al 2001 per il gruppo Finegil i parametri contenuti nel Tariffario 2007 dell’Ordine, l’ultimo con valore legale, ha dato attuazione ancora una volta alle disposizioni dell’articolo 2233 del Codice civile sui compensi minimi adeguati e decorosi. Il metodo risulta confermato, ma dal 2007 in poi non esistono parametri aggiornati specifici per i giornalisti, validi in sede giudiziaria e che tengano conto della sempre più veloce e profonda evoluzione della professione. Da anni si attende che il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti ottenga l’emanazione da parte del Ministero di Giustizia dei compensi minimi per i propri iscritti, come già avvenuto per le altre professioni ordinistiche (DM 140/2012). Il giudice che oggi si trova a decidere sull’equità della remunerazione del giornalista non ha alcun esplicito riferimento ma deve seguire un criterio analogico, spesso impreciso e complicato. Il testo della decisione fornisce precisi elementi di riflessione quando riporta che non “era dato comprendere il motivo per il quale a parità di quantità e qualità del lavoro reso da un giornalista in regime di subordinazione e da uno in regime di autonomia contrattuale non era possibile utilizzare come parametro di riferimento la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva.”

Il rispetto dell’Equo compenso per il lavoro autonomo è anche requisito necessario perché le aziende editrici possano accedere a ogni tipo di benefici pubblici, ai sensi dell’art. 3 della legge 233 del 31 dicembre 2012. Nel febbraio del 2016 il Consiglio di Stato, confermando la sentenza del Tar, ha integralmente annullato la delibera con le tabelle del cosiddetto “Equo compenso limitato” approvate nel 2014 ai sensi della legge 233/2012 e impugnate dal Cnog. La delibera annullata aveva, illegittimamente, ridotto l’ambito dei destinatari dell’equo compenso giornalistico ai soli collaboratori a progetto. Il CS ha osservato che “una simile limitazione non trova riscontro nella normativa”, infatti “la disciplina in materia di contratto a progetto non si applica direttamente al lavoro giornalistico, essendo escluse le professioni per le quali è necessaria l’iscrizione ad un albo professionale (cfr.  legge 90/2012, cd “Legge Biagi”; d.lgs. 81/2015, cd “Jobs Act”). Pertanto il Collegio non ha ritenuto possibile “modificare il dato testuale della legge, che si riferisce indistintamente a tutte le forme di lavoro non subordinato, attraverso il collegamento a qualificazioni e discipline che non riguardano il settore giornalistico.”

È noto che il giornalista, a differenza di tutte le altre professioni ordinistiche, non può fornire la propria opera direttamente all’utente finale, il lettore/ascoltatore, ma è costretto a lavorare per un editore. Questo necessario rapporto di dipendenza verso un soggetto datoriale ha portato il Collegio a riconoscere che tutte le forme di lavoro giornalistico autonomo sono “connotate da alcuni caratteri del lavoro subordinato e pertanto meritevoli di tutele assimilabili a quelle ad esso assicurate. In altri termini, ciò che la normativa in esame (233/2012) intende garantire è una tendenziale equità retributiva tra chi è dipendente (ed è quindi retribuito sulla base dei criteri stabiliti attraverso la contrattazione collettiva) e chi non lo è, e quindi resta sottoposto alla forza contrattuale dell’editore, aspetto fondamentale che prescinde dall’organizzazione dello svolgimento della prestazione lavorativa.”

Anche la Consulta ribadisce quindi, come il Tar, che l’equo compenso è un diritto di tutti i giornalisti non subordinati, nessuno escluso. Dall’annullamento non si è salvata la formulazione delle tariffe. Confermata illegittima la mancanza di spiegazione sul perché gli articoli sono meritevoli di equo compenso solo da 1600 battute in poi o da 144 pezzi in poi o perché debbano essere pagati proprio 3.000 euro l’anno. Il Collegio infatti afferma: “può ribadirsi che le previsioni della contrattazione collettiva di settore, se, come correttamente affermato dal TAR, non possono ritenersi vincolanti in positivo, costituiscono pur sempre un termine di raffronto che permette di sindacare un “aperto contrasto”; e che, quindi, per giustificare la valutazione di illegittimità dei parametri, è sufficiente sottolineare che, della loro “coerenza” con le previsioni che disciplinano il lavoro subordinato, la delibera impugnata non ha dato adeguatamente conto.”

Un’ultima variabile da considerare sul tema è quella del compenso adeguato riconosciuto dall’Ordine ai fini dell’iscrizione dei pubblicisti. Mentre un giornalista praticante gode di una remunerazione riconosciuta, stabilita dal contratto di lavoro, che non coincide con quella di un redattore ma è individuata “in coerenza”, la mancanza di parametri minimi da parte dell’Ordine nazionale per l’aspirante pubblicista ha da sempre consentito fenomeni di grave sfruttamento. Nonostante l’ovvia considerazione che anche in questo caso ciò che è ritenuto lavoro giornalistico è (o meglio, dovrebbe essere) meritevole di un’indicazione del suo valore. Vacatio legis.


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