Il giudice: oscurate il gruppo islamista. Cronista minacciata, no di Facebook

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Rejected. Rigettato, rispedito al mittente. Risponde così Facebook al decreto del giudice Angela Baraldi di Reggio Emilia, che l’8 marzo aveva disposto l’oscuramento di due pagine di stampo islamista per i reati di minacce aggravate e diffamazione attraverso mezzi di comunicazione di massa. Non una richiesta, ma una disposizione. Il social network più potente del mondo dopo 17 giorni ha deciso di non eseguire quanto stabilito dal magistrato. E la replica della società globale fondata da Mark Zuckerberg è stata tranchant e senza alcuna motivazione. Semplicemente: «Rejected». Fine delle comunicazioni. Ora, di fronte agli inquirenti, si pone un muro di incognite: esistono strumenti ulteriori nelle mani della magistratura per agire contro il colosso della comunicazione? È necessaria una rogatoria internazionale, dato che la sede è in California? Sarà sufficiente?

LA VICENDA – È il 25 febbraio scorso quando sulle pagine del Carlino viene pubblicata in esclusiva, una decisione del tribunale collegiale su Luca Aleotti, disoccupato 33enne, con padre italiano e madre magrebina, convertito all’Islam da una decina d’anni e indagato per terrorismo dalla procura di Bologna dopo alcune sue esternazioni postate sul web all’indomani delle stragi di Parigi. «Non esiste nessun islam laico o moderato esiste solo la sottomissione ad Allah», scriveva ad esempio con lo pseudonimo Saif-Allah (spada di Dio). L’uomo, però, è ora il destinatario di una nuova «sorveglianza speciale». Una misura di prevenzione personale che prima di allora, in Italia, era stata applicata soltanto per gravi reati legati alla criminalità organizzata. Per la prima volta nel nostro Paese, invece, tre giudici – su richiesta del questore e della procura – avevano deciso fosse necessaria data la «pericolosità del soggetto», a fronte anche dei suoi numerosi precedenti. Aleotti non era solo indagato per reati afferenti il terrorismo, ma in passato aveva aggredito un agente, era stato denunciato per atti persecutori nei confronti di una donna ed è seguito dai servizi sanitari. La sorveglianza speciale – oltre all’obbligo di firma cui era già sottoposto – prevede che non possa uscire la sera, intrattenersi in bar o locali affollati, la revoca del passaporto e l’obbligo di dimora nel Comune.

La mattina della pubblicazione dell’articolo, che recava la mia firma, sulla pagina Facebook ‘Musulmani D’Italia-Comunità’ compare un post. C’è la mia fotografia, rubata da Twitter, e un testo contenente il mio nome, cognome, età, luogo in cui lavoro. Vengo indicata come «islamofoba». Poi pesanti calunnie e invenzioni riguardanti la mia sfera personale e intima, allusioni di tipo sessista e volgarità, «considerato che per lo statuto giuridico Islamico questi atti sono punibili severamente», si legge. Quel post riceve 4 like. Ma in breve tempo la pagina, seppur di poco, inizia a incassare consensi. Subito viene presentata una querela alla Digos. Nei giorni successivi il pm Maria Rita Pantani apre un fascicolo a carico di Aleotti per i reati di minacce aggravate e diffamazione attraverso mezzi di comunicazione di massa.

Le indagini hanno confermato che è lui l’amministratore della pagina ‘Musulmani D’Italia-Comunità’ e anche di un’altra – non visibile, ma con lo stesso nome – che aveva condiviso un post analogo, condito anche da altre frasi in arabo. Nel frattempo, numerose segnalazioni personali vengono inviate a Facebook, chiedendo la cancellazione di quel post. Ma il social ha risposto a tutti di ritenerlo appropriato. Durante una telefonata intercorsa con i responsabili di Facebook Italia mi è stato spiegato che, in quanto giornalista, io sono secondo i loro regolamenti un «personaggio pubblico e, per questo, soggetta a policy diversa rispetto al resto delle persone». Su richiesta del sostituto procuratore, il gip l’8 marzo dispone quindi l’oscuramento delle due pagine del social network. Passano i giorni. Facebook non risponde, nonostante quattro solleciti scritti dalla procura. Ieri, la risposta: «Rejected».

Fonte: “Il Resto nel Carlino”


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