Denunciano il caporalato e i caporali minacciano. Intervista a Leo Palmisano

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Leo Palmisano e Yvan Sagnet non sono giornalisti. Il primo è un etnografo pugliese, professore universitario, attivista politico, autore di saggi, inchieste e un romanzo. Il secondo è un giovane camerunense, oggi ingegnere delle telecomunicazioni e sindacalista, che nell’estate del 2011 guidò una rivolta di braccianti a Nardò, provincia di Lecce, per denunciare le condizioni impietose della vita di ghetto. Anche grazie a questa rivolta il caporalato è diventato un reato nella legislazione italiana. Lo è, per l’appunto, solo dal 2011.

Ghetto, slum o bidonville sono termini appropriati per descrivere il modo in cui gli immigrati braccianti vivono nelle campagne italiane, non solo quelle meridionali, soggiogati dal caporalato e all’ombra del dibattito pubblico. Leo e Yvan hanno raccontato questa storia di bruciante attualità in Ghetto Italia, un viaggio-inchiesta pubblicato da Fandango Libri, che trascina anima e corpo tra quelle “baracche di legno e plastica, imbianchite dal sole e dalla polvere, disposte secondo un ordine molto preciso che ricorda troppo da vicino la disposizione dei blocchi nei campi di concentramento nazisti”. È notizia della scorsa settimana che, a causa di questo racconto, l’etnografo Leo e l’ingegnere Yvan sono stati vittime di intimidazioni, telefonate anonime e pedinamenti. Hanno tirato in ballo così tanta gente che è impossibile sapere chi abbia reagito male “quando il libro ha iniziato a circolare”. Abbiamo chiesto a Leo cosa intendano fare adesso: “Beh, vorremmo farci un film”.

Quali sono gli episodi di cui sei stato vittima? Quali quelli riguardanti Yvan?
Telefonate in cui venivo invitato a presentazioni del libro che erano evidentemente finte. Oppure mi si sollecitava, dopo essere tornato da alcune presentazioni vere, a verificare lo stato della mia automobile. Così facendo ti segnalano sostanzialmente la loro attenzione, la “cura” che hanno nei tuoi confronti. Yvan invece è stato seguito fuori da un ghetto da un caporale, o presunto tale, mentre era con una troupe giornalistica australiana.

Chi sta cercando di intimidirvi?
Non lo sappiamo. Noi abbiamo ricostruito un modello, un sistema di potere molto complesso e anche molto articolato sul territorio e sui territori. Sono tanti i rapporti che i caporali hanno con la società, e sono tanti i caporali. Non parliamo di quattro o cinque Totò Riina del caporalato, ma di centinaia di persone che muovono decine di migliaia di braccianti. Chiunque può aver deciso a un certo punto di muoversi contro di noi. Abbiamo toccato gli interessi di tutti, o perlomeno di un numero molto vasto di persone. Con un lavoro che copre sette regioni, dal Piemonte alla Sicilia, abbiamo rivelato come esista una tratta di braccianti non soltanto irregolari ma prevalentemente regolari, dentro tutto il tessuto produttivo agricolo italiano.

Qual è la denuncia presente in Ghetto Italia che credi dia più fastidio?
La denuncia più forte è quella più lesiva dell’interesse di un sistema d’impresa che costruisce gran parte dei propri profitti, e sono alti, sul tendenziale azzeramento del costo del lavoro. Questo si accompagna con l’azzeramento della qualità della vita e in alcuni casi, visto che ci sono stati morti l’estate scorsa e questo inverno, con l’azzeramento della vita stessa. Qui non vale la retorica della politica, stiamo parlando di lavoratori, di braccianti, che stanno lì perché c’è domanda di lavoro. E se vivono nei ghetti è perché sono pagati poco. Perché, come essi stessi raccontano, se guadagnassero soli dieci euro in più al giorno, potrebbero permettersi un posto letto in paese. Noi siamo entrati nei ghetti, abbiamo visto le condizioni di vita dei braccianti e ce le siamo fatti raccontare. È una condizione di bisogno estremo, quasi di schiavitù, e c’è sempre qualcuno che ne lucra. Le baracche, quelle che avete visto bruciare a Rignano Garganico (la notte tra il 15 e il 16 febbraio scorso centinaia di baracche, ospitanti 450 braccianti, sono state bruciate nel ghetto in provincia di Foggia, ndr), l’acqua e il cibo sono tutti a pagamento. Noi lo abbiamo detto per primi in Italia e in Europa. Nelle piantagioni di cotone dove c’erano gli schiavi neri perlomeno il vitto e l’alloggio erano gratis, nei ghetti nostri no, paghi tutto. Paghi per vivere letteralmente nella merda.

Durante le vostre visite nei ghetti avevate già ricevuto minacce? Quando e cosa le hanno fatte scattare?
No, solo quando il libro ha cominciato a circolare. Un oggetto culturale, in questo momento, fa molta più paura di un’inchiesta giudiziaria o giornalistica, perché è qualcosa di estraneo a quel mondo. Il reportage giornalistico, fatto magari attraverso un filmato, ti racconta una situazione di fatto, però non ti decostruisce tutta la trama di potere che c’è. In Ghetto Italia, attraverso il racconto dei braccianti, siamo riusciti a ritessere una trama, ricostruendone un filo logico, e addebitare le responsabilità là dove vanno addebitate. Non lo aveva fatto nessuno. È chiaro che se noi parliamo ad esempio di Nardò, dove si passa dalla proprietà diffusa al latifondo, l’Amministrazione comunale non si costituisce parte civile nel processo Sabr (uno dei primi processi per caporalato, in corso a Lecce ed in cui Sagnet è testimone, ndr),  e sappiamo che un caporale che colloca cento persone può portare a votare cento famiglie… invitiamo il lettore a fare due più due.

Puoi spiegare come è organizzato il sistema di potere del nuovo caporalato?
Il caporalato attecchisce in Italia perché abbiamo una normativa che si chiama Bossi-Fini, una normativa che riduce gli immigrati in condizioni sub-umane e di forte ricattabilità sociale. La Bossi-Fini vincola la permanenza sul territorio italiano a un permesso di lavoro. Significa che un numero importante di immigrati, che prima lavoravano nelle fabbriche del Nord e nel Nord-Est, con la crisi vengono espulsi da quel sistema e diventano manodopera a bassissimo costo, perché loro devono mantenere un qualunque contratto pur di restare regolarmente in Italia. Chi ne approfitta è l’agricoltura. Riguardo invece i richiedenti asilo: alcuni Cara, come quello di Mineo, sono grandi centri di reclutamento per braccianti. Il richiedente asilo ha già uno statuto sostanzialmente inferiore a qualunque altro immigrato, perché non può, sulla carta, lavorare ma necessita di denaro per sopravvivere. Quindi diviene manodopera che può essere pagata anche meno di quella regolare. Per non parlare di chi è in condizione di irregolarità totale, o clandestinità. Poi c’è un’anomalia. Le associazioni datoriali ci dicono che è il mercato a fare il prezzo, ma se per mercato intendiamo l’oligopolio di imprese della trasformazione del pomodoro o della grande importazione di ortofrutta italiana (che agisce in regime di duopolio o addirittura monopolio), questo cartello è in grado di fissare arbitrariamente il prezzo del prodotto, a prescindere da qual è la spesa sostenuta dal contadino e dal produttore. Dentro questo prezzo deve rientrare anche il costo della manodopera, che quindi non incide più sul costo del prodotto. Le imprese, fissato il prezzo in base alla necessità di competere con multinazionali molto più potenti di loro, si rivolgono ai caporali, dicendogli: “quest’anno per x pomodori io ti pago x” e quindi scaricano su di essi la responsabilità di reclutare manodopera da sottopagare. Questi possono quindi agire con largo anticipo e, tramite telefonini e web, hanno grosse capacità di mobilitazione.

Quanti pomodori, patate, mandarini che finiscono sulle nostre tavole credi siano frutto del lavoro sfruttato o sottopagato?
Ti faccio un esempio che riguarda le tavole inglesi. La Princes, cioè la società della Mitsubishi che trasforma il pomodoro in ketchup, trasforma circa il 40% del pomodoro raccolto in Capitanata. Lo dice nel suo sito, parliamo di circa 300mila tonnellate di pomodoro. È evidente che la Princes in qualche misura fissa il prezzo del pomodoro in Capitanata. Quel ketchup copre il 25% del mercato inglese. Mi chiedo allora perché le imprese, soprattutto quelle della trasformazione agroindustriale, si oppongano a una certificazione etica di qualità, che copra tutta quanta la filiera e che avvenga attraverso le ispezioni nei campi. Bisognerebbe imporglielo per legge, ma questo non avviene. Qualcuno dovrebbe dire ai consumatori, non soltanto quelli nordeuropei che hanno già capito cosa avviene nelle nostre campagne ma anche a quelli italiani, che se un’anguria costa 19 centesimi al chilo, il costo del lavoro a pezzo è, più o meno, di un centesimo. Siamo corresponsabili all’interno del circuito, però chi ha responsabilità più forti è il grandissimo sistema delle multinazionali agroalimentari e agroindustriali e le associazioni datoriali che si schierano contro i caporali – facile, siamo tutti contro Matteo Messina Denaro!–  ma negano che siano le imprese a richiedere manodopera sottopagata, non aiutando il sistema a rivelare se stesso.

Nel libro racconti spesso di essere nauseato, turbato, incazzato, raggelato da ciò che hai potuto vedere con i tuoi occhi. Mi chiedo se tu scorga questi sentimenti anche nei tuoi lettori. Insomma, quante persone si indignano ancora?
Moltissime. Noi abbiamo un’Italia bella, giovane, l’Italia delle scuole superiori e medie, presente anche al Sud, quella del mondo della cooperazione, quella all’interno di alcuni circuiti produttivi alternativi. È un’Italia che va messa a valore, perché è quella numericamente più ampia. Il nostro libro sta arrivando veramente dappertutto. Noi siamo contentissimi e scorgiamo non soltanto curiosità o stupore, quando non nausea, ma anche il desiderio di adoperare il libro come strumento per costruire un racconto collettivo di verità, sul quale andare poi a fondare anche un’iniziativa politica. Dopo la solidarietà espressaci da Amnesty International, sono stato sollecitato a scrivere un documento che pungoli il governo a modificare il decreto Martina e a riequilibrare i rapporti di forza all’interno del mercato del lavoro. L’Italia che ci vuole bene, che ci legge, che ci invita, che ci manda messaggi di solidarietà, è anche l’Italia che vuole il lavoro, che non vuole il Jobs Act, che non vuole più il precariato, che vuole potersi pagare una casa, che vuole riequilibrio dei rapporti di mercato e dei rapporti tra città e campagna. Si sta muovendo una costellazione di interessi comuni. Noi cominciamo a pensare che Ghetto Italia stia diventando una sorta di bene comune e questa cosa ci piace tantissimo.

Avete intenzione di proseguire il lavoro?
Beh, vorremmo farci un film. Ma non un documentario, un film in cui utilizzare i ghetti come location. Lì dentro c’è umanità. Non c’è soltanto quello che ci hanno consegnato i media quando lì dentro c’era il morto nel pieno della stagione estiva, e la stanchezza, il sudore, ma ci sono anche delle relazioni affettive, ci sono giovanissimi ragazzi con delle competenze strepitose, c’è tutto un racconto d’Europa, dei neo-comunitari, di Centrafrica che sta lì e che questo paese tende a seppellire, in modo neanche più utilitaristico, perché l’utilità del bracciante viene meno quando tu lo uccidi come sistema, lo porti alla denutrizione, alla malattia, all’assenza totale di igiene. Poi c’è la risposta di civiltà, perché dai ghetti non sono venute fuori ondate di terroristi, ma alcune rivolte legittime e soprattutto tanto lavoro. Dovremmo cominciare a tracciare un’ipotesi d’integrazione che passa proprio lì dove la condizione di lavoro è più nefasta. Come si faceva una volta con la fabbrica, facciamolo con l’agricoltura.


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