Il giovane Eco. Pensavate che ignorasse il teatro?

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Sciogliamo il dubbio evocandone la giovinezza a Milano

Rapida rassegna stampa il giorno dopo la scomparsa di Umberto Eco, tanti interventi e testimonianza di pregio, qualche ciarpame di ritualità pubblicistica, l’immancabile aneddotica ‘regionalista’ dei luoghi in cui soggiornò e delle tracce (per lo più allegre, pantagrueliche) che lasciò al suo passaggio di viaggiatore bulimico di conoscenza, eno-gastronomica compresa: irripetibile ‘degustatore’ di vita con due soli paragoni plausibili, Ugo Tognazzi e Marco Ferreri. Sfoglia che ti sfoglia, ‘naviga che ti naviga’ non trovo traccia di ciò che invece ero certo di avere appreso (in anni passati, adolescenziali): i rapporti, fuggenti ma dirompenti, che il “giovane” Umberto Eco (foto in alto) intrattenne con il teatro, sul finire degli anni cinquanta, al tempo dei suoi primi soggiorni a Milano- assunto in Rai, tramite concorso, con Gianni Vattimo e Furio Colombo a “rovistare di cultura autoctona”, per ordine di Bernabei.
Non ancora trentenne, ‘goloso’ di vita e di tempo libero, amante (enciclopedico, diderotiano) di qualsiasi forma di intrattenimento, espressione contigua o meno al diletto goliardico\profetico\sapienziale (elargito a piene mani e senza il sussiego dei ‘pensatori’), Umberto prese a frequentare, dopo le ore in redazione e qualche buona cena ai Navigli, i locali del Derby Club divenendo buon amico dei suoi fondatori, Giovanni e Angela Bongiovanni, e gradualmente sodale di chi, a quel tempo, animava le notti ‘melanconiche, sgangherate, spiritate’ di quello che poi divenne l’emblema stesso del teatro cabarettistico italiano, riemerso dalle macerie della guerra. Qualche sodale? Enzo Jannacci, I Gufi, Walter Valdi, Paolo Villaggio, Lino Toffolo, Sandro Viola, Teo Teocoli, più i ‘dioscuri’ Simonetta e Bianciardi, destinati a una vicenda umana e letteraria diametralmente opposta (ma questa sarebbe un’altra storia).
Sono due i ‘documenti’, documentabili ma poi deglutiti dal fiume Lete, cui posso accennare (con affrettato approfondimento) in queste poche righe. L’apporto –saporitissimo, mercuriale- offerto da Eco (firmandone, in parte, i testi) al regista Filippo Crivelli per la messinscena (nel 1960) del musical ‘in economia’ “Tanto di cappello”, ove debuttava una ‘illustre sconosciuta’ di nome Mariangela Melato, rinsaldata dal primo attore e ‘garante’ Sandro Massimini- caro, sapido amico prematuramente scomparso, considerato per tutto il tempo che gli rimase il vero principe dell’Operetta realizzata in Italia e di lì esportata in mezzo mondo (ignoro se Mariangela lo seguì in qualche “Cincinlà” o “Paese dei campanelli” dai successi strepitosi).
Seconda, forse più succosa, curiosità. Umberto Eco, che precorreva i tempi ma era fermo al teatro dei tempi d’oratorio, s’inventò in una sola notte (del 1959), probabilmente per Dario Fo (che mai lo recitò), un monologo surreale dal titolo “Le forbici elettroniche”. Il cui protagonista, prima che Kubrick e Spielberg iniziassero a meditarci su, era già una intelligenza artificiale antropomorfizzata: con braccia da polipo e diffidenze da madama Anastasia. Al tempo in cui i bisnonni del computer si chiamavano ‘elaboratori con schede perforate’, grandi ed espansi quanto un appartamento per benestanti (li producevano gli americani della Ibm), il geniaccio di Alessandria intuì che il ‘Gran Censore’, certamente consanguineo del beckettiano Nastro di Krapp, poteva vivere di vita propria, per il solo piacere di recare danno all’intelligenza degli umani\pensanti.
Come? Confondendo reale e virtuale, processo alle intenzioni e processo all’assurdo, arrivando (legittimamente) a credere nella propria esistenza di ‘vita e autonomia’, espletata nel sadico piacere di rovistare, mescolare, snaturare (in mostruosità di scritture promiscue, automatiche, dissennate) i copioni e le sceneggiature cinematografiche che qualche sventurato aveva creduto bene di ‘mettere in custodia’. Non diversamente da come accade oggi a tanti di noi quando il portatile decide in proprio di ‘bersi’ la memoria remota o congiungere ‘carnalmente’ un file con un altro (oppure farne orgia con quindicine) , partorendone orrende creature che nemmeno “Il pasto nudo” di Cronenberg o “Eraserhead” di Lynch….
Alla faccia dei linguaggi ‘alti’ e dei linguaggi ‘bassi’. Semmai (ri)proponendoci se impiccarci, o rimandare, al nodo gordiano degli apocalittici mai più integrati, ma con parenti cassintegrati.


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