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In Europa, a nuoto. Per avere protezione internazionale i rifugiati costretti a rischiare la vita

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Il mio amico Ghassan ha i baffi ed i capelli bianchi. Sua moglie ha un tumore e nessun aiuto in Turchia, dove vivono da un anno dopo essere scappati dalle bombe del regime siriano. Il mio amico Ghassan stanotte ha nuotato per quattro chilometri per raggiungere l’Europa. Non aveva altra scelta.
Mi ha scritto un messaggio per dirmi che era arrivato sull’isola di Samos sano e salvo. Erano in quattro, sono scesi sulla spiaggia alle tre del mattino, hanno indossato una muta da sub, hanno messo passaporti e soldi nei contenitori di plastica sigillati legati con una cordicella al collo e sistemati al sicuro sotto la muta, si sono infilati i giubbotti salvagente e sono entrati in acqua.
Ghassan l’ho incontrato la prima volta alla stazione degli autobus di Edirne. Era stato fermato dai gendarmi turchi assieme ad altri quattrocento siriani, famiglie intere arrivate da ogni angolo della Turchia. Volevano marciare fino al confine, ma non gli è stato permesso. Aveva paura Ghassan e contava sulla presenza della nostra telecamera come protezione dai manganelli della polizia turca. Con Fabrizio Silani eravamo li per il Tg2 e a parte Maria Cuffaro del Tg3, nessun altro giornalista internazionale si era interessato a loro. Eppure erano migliaia i siriani che si erano dati  appuntamento il 15 settembre sul confine tra Turchia e Grecia. I siriani si erano autoconvocati con lo slogan Crossing no more, mai più traversate in mare. Un vero e proprio movimento nato sull’onda degli applausi che accoglievano i siriani in Germania e sull’emozione delle immagini del corpo del piccolo Aylan riverso sulla spiaggia, quella foto del bimbo con la maglietta rossa morto sul bagnasciuga che ha fatto il giro del mondo e sembrava aver aperto le porte a chi scappa da guerra e persecuzione.
In Turchia ci sono due milioni di rifugiati siriani. A decine di migliaia hanno aderito a Crossing no more, perché restare in Turchia per i siriani non è possibile, non c’è lavoro e quando c’è li pagano un quarto degli stipendi normali dei turchi, i bambini non possono andare a scuola, gli affitti e tutte le spese per i siriani costano quattro volte di più che ai turchi. I siriani in Turchia non li hanno mai amati. Andare via, andare in Europa significa avere l’occasione di una vita normale.
Ghassan mi ha scritto che il tempo era buono. La notte che ha iniziato a nuotare il mare era calmo e le onde basse. Si sono immersi nel buio del mare senza neanche la luna. L’Europa era li di fronte a loro, le luci dell’isola di Samos indicavano la direzione. Ghassan ha iniziato a nuotare mentre pensava a sua moglie e alle sue due figlie di 13 e 15 anni e alle parole che non aveva detto. Non voleva spaventarle e non le ha avvisate che avrebbe tentato di raggiungere l’Europa a nuoto. Sua moglie ha un tumore e in Turchia non ha nessuna cura, nessun aiuto, i farmaci costano cifre irraggiungibili. “Non avevo altra scelta” mi scrive. La sola possibilità per la sua famiglia sono le braccia di Ghassan e la sua determinazione a raggiungere quelle luci per poi trovare il modo di farsi raggiungere dai suoi cari.
Ad Edirne erano migliaia. I turchi avevano proibito la vendita dei biglietti dei pullman ai siriani così loro si sono messi in marcia. 230 chilometri da Istanbul ad Edirne. Hanno camminato bambini, vecchi, donne, persone su sedie a rotelle, ragazzi con enormi valigie sulle spalle. Hanno camminato lungo l’autostrada per un giorno intero. Li hanno fermati gli scudi dei gendarmi turchi. Le autorità turche hanno promesso aiuto ai siriani. Il premier ne ha ricevuto una delegazione ad Ankara di fonte alle tv, c’erano le elezioni in quei giorni e le lacrime dei siriani assieme alle promesse del governo facevano gioco. Nelle stesse ore a Bruxelles il parlamento europeo decideva il ricollocamento dei rifugiati già arrivati in Europa, per la Turchia venivano stanziati un miliardo di euro per nuovi campi profughi, per tenersi i rifugiati. È per questo che sull’autostrada di Edirne, dopo 48 ore di trattativa, i gendarmi hanno preso di peso quelle famiglie disperate e le hanno riportate indietro, caricati a forza sui pullman diretti ad Ankara, ad Istanbul e anche ad Izmir. I siriani potevano scegliere di raggiungere la città sulla costa, da dove partono quasi tutti i gommoni diretti verso le isole greche, quelli che affondano uno ogni due giorni, su cui viaggiava anche quel bambino con la maglietta rossa.
Dopo due chilometri le onde si sono fatte più alte. Ghassan scrive che ha dovuto mettercela tutta. I suoi amici non ce l’hanno fatta e sono tornati indietro. Lui invece è andato avanti, da solo. Ha impiegato tutta l’energia che aveva per superare il mare e non ha mollato mai. Alla fine dei turisti su una barca a vela lo hanno visto e lo hanno issato a bordo. Quando è sceso sull’isola di Samos Ghassan ha tirato fuori il telefono dal contenitore sigillato e ha chiamato la sua famiglia.
Ghassan aveva chiesto all’Europa che aprisse ai siriani una strada sicura per non annegare e per non pagare più i trafficanti di uomini. Ma la sola strada che l’Europa ha concesso è quella del mare. La stessa che hanno preso tutti i rifugiati arrivati in Europa negli ultimi anni. Compresi i diciannove eritrei che sono partiti da Roma diretti a Stoccolma su un aereo militare. Anche loro hanno dovuto attraversare il mare per arrivare in Europa. È questo l’intollerabile paradosso cui assistiamo ogni giorno: bisogna rischiare la vita per ottenere protezione internazionale. Quei diciannove eritrei sono i primi ricollocamenti, la distribuzione dei rifugiati decisa a Bruxelles in quello stesso vertice che destinava un miliardo di euro alla Turchia per fermare i siriani sui confini d’Europa.
Ghassan ora è su un traghetto diretto ad Atene. Il suo messaggio si conclude così: “I take the map to go direct to makdonya”. Buona fortuna Ghassan.

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