Rosario Livatino, 25 anni fa… La memoria
è tra i doveri etici dell’informazione

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Venticinque anni fa, alle prime ore del mattino del 21 settembre 1990, nella campagna intorno a Canicattì, veniva ucciso, mentre si recava in tribunale senza scorta, Rosario Livatino, noto ai più come “il giudice ragazzino”. Non abbastanza da evitare i colpi dei sicari della Stidda, l’organizzazione mafiosa individuata come responsabile dell’agguato. Tra le tante inchieste che Livatino stava seguendo c’era anche quella sulla cosiddetta “tangentopoli siciliana”.

Su quella stessa strada, la SS 640, appena due anni prima, il 25 settembre 1988, erano stati trucidati nello stesso modo il giudice Antonino Saetta con il figlio Stefano. Per il loro assassinio furono condannati  anche i capimafia Totò Riina e Francesco Madonia. Saetta , per la mafia, aveva molte colpe:  da presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta,  si occupò, di un importante processo di mafia, quello relativo alla strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, e i cui imputati erano, tra gli altri, i “Greco” di Ciaculli, vertici indiscussi della mafia di allora, pure incensurati. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di primo grado. Passato poi a Palermo, quale presidente della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello, tra l’altro presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Basile, che vedeva imputati i pericolosi capi emergenti Vincenzo Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia, tutti condannati. La sua morte, nelle intenzioni di Riina e dei suoi complici, doveva essere un avvertimento agli altri giudici ma doveva anche evitare che venisse assegnato al magistrato trucidato il maxiprocesso d’appello che stava per prendere l’avvio nel tribunale del capoluogo siciliano.

Anche Saetta, come Livatino, viaggiava senza scorta. Lasciati soli dalle istituzioni, rischiano anche di essere dimenticati. Eppure, la loro storia ancora insegna e l’informazione non può cancellarla o limitarsi a riportarla in un trafiletto o in un pezzo di cronaca locale, e solo grazie alla medaglia che il Presidente della Repubblica Mattarella ha assegnato alle due associazioni che da anni si battono a Canicattì, per mantenere accesa la memoria di questi due martiri del dovere. Per inciso, il Capo dello Stato, che la memoria delle vittime di mafia la conosce e la difende in prima persona, sarà a Caltanissetta venerdì prossimo proprio per ricordare i due magistrati.

Soprattutto la vicenda di Rosario Livatino è esemplare, prima nella sua carriera in magistratura, dove entrò giovanissimo, vincendo ad appena 27 anni il concorso, e si distinse subito per le inchieste pesanti a cui lavorò, come quella che riguardava i cosiddetti “Cavalieri del Lavoro di Catania”, quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora apparivano come il potere economico più forte nel Sud. E, più tardi, fece scalpore il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss. E’ giusto ricordare che Mannino, arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, fu assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.

Più pesanti,però, nel ricordo di Livatino, furono le parole pronunciate dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che, a proposito delle sue inchieste, affermò con estremo cinismo:  “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa.” Un ragazzino, così Livatino diventò il “giudice ragazzino” grazie al libro che a lui dedicò Nando Dalla Chiesa, sociologo ma prima ancora figlio del generale ucciso da Cosa Nostra, che rinfacciava a Cossiga il fatto che, quale capo del Csm, avrebbe dovuto difendere quei giovani impegnati sul fronte più caldo della magistratura anziché attaccarli.

Ancora oggi le vere cause della morte di Livatino non sono chiare fino in fondo. Di certo la politica non l’ha aiutato: “Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare”, dirà Paolo Borsellino a proposito della sua morte.

Per la sua fede religiosa, che il magistrato aveva sempre considerato parte integrante del suo impegno professionale al servizio dei più deboli, nel 2011 la Chiesa ha avviato un processo di beatificazione. Vogliamo ricordarlo, però, con una sua frase che da il senso profondo di questa sua fede nell’impegno prima ancora che in un Dio: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili.”


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