Dove va l’Ansa?

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L’Agenzia nazionale stampa associata –più nota con l’acronimo Ansa- nacque nel gennaio del 1945 su proposta dei quotidiani delle maggiori forze della Resistenza. Vale a dire l’Unità, Il Popolo e l’Avanti, cui si associarono L’Italia libera, La Voce Repubblicana e Risorgimento Liberale. Prendeva autorevolmente il posto della vecchia agenzia Stefani, legatasi al regime. Non per caso, la scelta della governance, come si direbbe oggi, fu peculiare e coraggiosa: una cooperativa di giornali, indipendente dai governi e da questa o quella cordata finanziaria. Ecco, purtroppo la situazione di oggi non è affatto felice, essendo esplosa una crisi iniziata da qualche anno. Anzi. Proprio negli ultimi giorni –quattro dei quali segnati dallo sciopero- la situazione è precipitata. Infatti, la struttura di direzione ha deliberato 65 esuberi, con la ventilata richiesta della cassa integrazione. L’ultimo “pacchetto”, in verità, ha dei precedenti già consistenti, visto che nel volgere di pochi anni la redazione è passata da 400 a 316 persone. Non solo. I giornalisti si sono resi disponibili con impegno e serietà a stare pienamente nel ciclo produttivo crossmediale, dando vita –tra l’altro- ad un sito di eccellenza, cui nel 2014 è andato il riconoscimento del “Premio Ischia”.

Famosa è la qualità delle fotografie, che sarebbe piaciuta a Walter Benjamin. Per dire. E, sempre nel 2014, i conti erano in pareggio. Mentre ora, a motivare la scelta delle eccedenze, si dice che l’esercizio in corso si chiuderà con un deficit di 5 milioni di Euro. Che è successo? Bastano a giustificare una simile condotta i tagli -3 ml- del Fondo dell’editoria nei riguardi dell’agenzia? Difficile, visto che sembra esservi un impegno a ripristinare la soglia precedente. C’è, almeno in apparenza, qualcosa che sfugge. Così, è legittimo sospettare che il problema stia altrove. Torniamo alla specificità dell’assetto dell’Ansa. Con l’eccezione del Sole24Ore, la maggior parte dei gruppi editoriali siede nella cabina di comando. Per un verso, forse, a fronte dell’ascesa inarrestabile della versione on line delle news, l’agenzia potrebbe persino essere vissuta come un concorrente; per un altro, è altrettanto probabile che la linea dura scelta sia una sorta di prova generale. Nel momento in cui servirebbe gestire con sagacia e lungimiranza la fase della transizione all’era digitale, il grosso degli editori preferisce la scorciatoia dell’abbattimento del costo del lavoro, amputandolo e svalorizzandolo. Insomma, mentre negli Stati uniti vi è un dibattito interessantissimo sulle prospettive della carta stampata nell’età di Internet e in Francia lo stato si fa carico di un surplus di finanziamento pubblico (280 ml di Euro, dieci volte quelli del Fondo italiano), qui i gruppi dirigenti –Fieg compresa- preferiscono prendersela con l’anello debole: vale a dire una categoria professionale impoverita e tendenzialmente precarizzata.

Non è una strategia, bensì il contrario. Non solo la crisi non verrà fermata, ma –al contrario- si aggraverà senza sbocchi possibili. E’ un tema di prima grandezza, che dovrebbe costituire il cuore della annunciata riforma del settore. A meno che non ci si accontenti di un maquillage del Fondo pubblico, senza agire sui nodi strutturali. E’ augurabile che le organizzazioni sindacali vogliano prendere in mano la questione, che attiene peraltro alla loro stessa forza di rappresentanza.

Siamo nel mezzo di un passaggio grave e cruciale. L’Ansa è la fonte per eccellenza, l’ontologia dell’informazione. Anticipa il futuro.

Fonte: “Il Manifesto”


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