Il sorriso della partigiana e quelle raffiche di mitra

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Il 25 aprile 1945, settant’anni fa, tutti pensarono che il mondo non sarebbe più stato attraversato da guerre, razzismi, olocausti, invece siamo stati costretti ad assistere a conflitti chiamati, ipocritamente, “interventi umanitari” o peggio ancora “missioni di pace”. A pagare il prezzo più alto sono sempre i civili, tra questi tanti banbini.
Dalle parti di Bologna, sull’Appennino, c’è un luogo dedicato alla memoria e alla pace, che andrebbe visitato non solo il 25 aprile: Monte Sole. Lì attorno ce ne sono altri che portano nomi incancellabili: Marzabotto, Pioppe, Vergato, Ronchidoso, Ca’ Berna, sono alcuni dei tanti paesi, tra l’Emilia e la Toscana, dove, durante la Seconda Guerra Mondiale, i nazifascisti compirono efferati eccidi per punire un popolo che voleva riconquistare la Libertà. Nonostante questi sacrifici, con gli eredi del Duce nei governi Berlusconi, sono ricomparse nelle piazze le croci uncinate, giovani con il saluto romano sulla scalinata del Campidoglio hanno festeggiato l’elezione a sindaco del camerata Alemanno, ministri, che in occasione della festa della Liberazione, hanno tentato di mettere insieme partigiani e repubblichini sostenendo che anche chi andò a Salò per unirsi ai nazisti lo fece per difendere la Patria. Per fortuna ci sono esempi che sopravvivono ai revisionismi, uno di questi è Irma Bandiera, morta per la nostra libertà, l’8 aprile 2015 avrebbe compiuto cent’anni. Nella mia famiglia, il 25 aprile si compiva sempre lo stesso rito: con mio padre, mano nella mano, fermi, in silenzio di fronte al Sacrario di piazza Nettuno a Bologna. Quel rito che da piccolo non capivo, è stato più importante di cento discorsi. Era la memoria, il dovere di non dimenticare. Su un fianco di Palazzo D’Accursio, il luogo dove, per intimidire la popolazione, venivano gettati i corpi dei partigiani uccisi dalle brigate nere, ci sono tante foto in ordine alfabetico in memoria dei martiri per la Liberazione dal nazifascismo, alcune di queste sono contornate da un filetto dorato a significare la medaglia d’oro al valor militare. Tra queste c’è anche quella di Irma, una bellissima ragazza dal sorriso stupendo, le labbra carnose accentuate dal rossetto, i capelli ben pettinati, con lo sguardo rivolto verso l’alto. All’inizio la pensavo una santa, poi la credevo un’attrice dei telefoni bianchi, invece era una partigiana. Le SS la catturarono il 7 agosto 1944. Aveva appena fatto una consegna di armi a Castelmaggiore, una frazione poco fuori Bologna, possedeva documenti cifrati. Irma, da piccola chiamata Mimma, era figlia di una famiglia benestante, allegra, generosa, mai un eccesso, sempre molto ubbidiente. Era cresciuta coltivando ideali democratici, studiava all’università. Quando l’Italia entrò in guerra poteva sfollare come fecero in tanti in attesa della fine del conflitto. Lei no, rimase e cominciò a frequentare gli ambienti antifascisti e dopo l’8 settembre ’43 scelse la libertà, la giustizia sociale, di lottare contro i nazisti che occupavano l’Italia e contro i fascisti che li aiutavano. Diventò partigiana combattente nel 7° Gap di Bologna, portava ordini, armi, informazioni e l’unica difesa era l’astuzia. Le istruzioni erano quelle di non far conoscere a nessuno il suo lavoro. “La famiglia, gli amici, devono pensare che svolgi una regolare professione”, le aveva ordinato il comandante, “devi avere sempre pronta una giustificazione nel caso che fossi fermata lungo il tragitto e soprattutto se sei catturata non parlare mai e non rivelare i nomi dei compagni”. E’ quello che fece Irma, anzi Mimma, questo fu il suo nome da partigiana. Non parlò per sette giorni nonostante le sevizie e le violenze dei nazifascisti. Poi, il 14 di agosto, ancora viva, fu portata sotto la casa dei genitori e quel fascista grande e grosso che non riusciva a farle aprire la bocca neanche per un gemito, guardandola per l’ultima volta negli occhi, quegli occhi che per sette giorni lo avevano sfidato con disprezzo, le chiese, per l’ultima volta, di fare i nomi dei partigiani in cambio della vita. In risposta ebbe il suo sorriso, quel sorriso che è in quella foto incorniciata dal filetto dorato sul Sacrario e che non sarà mai dimenticato. Prima l’accecarono poi una raffica di mitra ruppe il silenzio del Meloncello. Quei colpi echeggiarono per i tre chilometri di portici che da lì arrivano sino alla Basilica di San Luca, all’interno della quale è costudita la Madonna bizantina, quella che protegge Bologna. Oggi nel luogo in cui Irma-Mimma Bandiera sacrificò la sua vita per non denunciare i compagni, c’è una lapide con su scritto: “Il tuo ideale seppe vincere le torture e la morte…”

Fonte: “Il Fatto Quotidiano”


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