Femminicidio, rivittimizzazione e Convenzione di Istanbul

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Venerdì scorso, 19 settembre, a Montecitorio alla conferenza “Al sicuro dalla paura, al sicuro dalla violenza“, organizzata dalla Presidenza della Camera, il Ministero degli esteri e il Consiglio d’Europa, l’Italia ha per la prima volta ospitato un dibattito e uno scambio di idee e di esperienze internazionali riguardo la “Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, presentata a Istanbul nel 2011 e ora in vigore negli Stati che l’hanno ratificata, compresa l’Italia. L’incontro è stato condotto per tutta la mattina dalla presidente Laura Boldrini che ha fatto gli onori di casa presentando e moderando ospiti italiani e stranieri, una responsabilità che la terza carica dello Stato si è assunta personalmente, mostrando pubblicamente l’importanza del contrasto alla violenza sulle donne in Italia e nel mondo, e anche il suo impegno personale. L’Italia è stato uno dei primi Paesi a ratificare la Convenzione di Istanbul, un documento che indica chiaramente come si contrasta la violenza sulle donne ponendo l’accento sulla protezione e sulla prevenzione, prima della punizione. “La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani, non più un fatto privato”, ha detto Boldrini ricordando l’impatto sociale ed economico per chi non applica misure adeguate contro il femminicidio, e “occorre un approccio sinergico, olistico, trasversale” ma anche un profondo “cambiamento della mentalità” – ha aggiunto – in quanto per uscire dalla violenza occorre saperla riconoscere in un mondo basato su stereotipi che relegano le donne in secondo piano in tutti gli ambiti: sociali, politici, nel lavoro, e in cui è doveroso riconoscere l’importanza di promuovere “più donne nelle istituzioni, nelle accademie, nell’economia”, ovunque. Un concetto ribadito dalla stessa Gabriella Battaini-Dragoni, Vice Segretaria generale del Consiglio d’Europa, che ha voluto sottolineare che quell’evento si è svolto solo con “il fermo impegno” di due donne che sono oggi nelle istituzioni: quello della presidente Boldrini e della ministra degli esteri Mogherini, facendo intendere che quando si parla di donne non si può dare nulla per scontato. “Un trattato all’avanguardia sui diritti umani – ha spiegato Battaini-Dragoni – con un consenso che sembrava non facile da conseguire per le difficoltà avute nell’arrivare a un accordo a Strasburgo, spesso messo in discussione da chi questa Convenzione la stava costruendo. Un testo che dissipa molti tabù sulla violenza contro le donne e che dimostra che un cambiamento culturale è già in atto”: un cambiamento per cui “non bastano uno o due decreti legislativi – ha continuato – ma occorre un piano trasversale” che dipenderà dai governi e dalle politiche che saranno attuate, su un documento che potrà essere adottato non solo in ambito europeo ma a livello internazionale da tutti i paesi che vi vorranno aderire. Sulla stessa linea è Anne Brasseur, Presidente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, che ha definito la Convenzione di Istanbul come “pioneristica”, in quanto “completa norme giuridiche esistenti, ampliando il quadro internazionale in materia di uguaglianza e autonomia delle donne”. “A New York – dice Brasseur – ho suggerito a Ban Ki-moon (attuale Segretario Generale delle Nazioni Unite, ndr) di rendere la Convenzione di Istanbul uno standard senza fare ulteriori doppioni, ed è per questo che la sua ratifica e la sua applicazione è un passo fondamentale”. Un “lavoro coraggioso ispirato dalle parlamentari europee che si sono concentrate sulla violenza contro le donne” e per la cui applicazione le istituzioni dovranno trovare come “collaboratrici privilegiate” le Ong sui vari territori nazionali, ha concluso Brasseur.
Ma veniamo ai dati messi in giusta evidenza dal Direttore dell’Agenzia dell’Unione europea per i Diritti fondamentali, Morten Kjærum, che ha sottolineato l’importanza dell’approccio multilivello e della prevenzione indicati nella Convenzione di Istanbul, dando forte rilievo al cambio di mentalità e di cultura. “L’anno scorso – ha riferito Kjærum – abbiamo intervistato 42mila donne che hanno raccontato storie terribili di sofferenza andate avanti per mesi e anni, e abbiamo visto che nei 12 mesi che hanno preceduto la nostra indagine, nell’Unione Europea, ci sono state 13 milioni di donne che hanno subito una forma di violenza fisica, mentre 1 milione e mezzo hanno subito violenza sessuale”. “Cifre scioccanti”, per usare le sue stesse parole, a cui Kjærum aggiunge la cyber molestia che, pur non essendo ancora considerata significativa in molti Paesi, spesso genera “un atto di violenza fisica e conseguenze psicologiche devastanti per chi la subisce”, e che coinvolge in Europa il 20% delle giovani, spesso dall’età di 15 anni in poi. “Più della metà delle donne dell’Unione europea – spiega il direttore del FRA (Agency for Fundamental Rights) – evita di frequentare posti in cui ha paura di essere assalita”, un dato che lui collega al lavoro ancora lungo da svolgere in materia di emancipazione e su cui chiarisce che anche donne che ricoprono posti manageriali subiscono molestie, così come donne che hanno conseguito una laurea, perché nessuna è esclusa da un fenomeno così trasversale e ampio. A Kjærum poi va anche il merito di essere stato l’unico ad aver parlato del ruolo degli uomini non solo come “offender” ma proprio come ruolo maschile nella società, invitando gli uomini stessi a una riflessione sul proprio ruolo nella ricerca di una ridefinizione sociale affrancata dai vecchi modelli di comportamento.
A dare voce a un panorama internazionale è stata invece Gauri van Gulik, avvocata di Human Rights Watch, che ha ricordato la violenza sulle donne in zone di guerra come l’Iraq, la striscia di Gaza e l’Ucraina, ricordando che “il 35% delle donne nel mondo vive una situazione di violenza” e ponendo pubblicamente la domanda: “come affrontano questa violenza i governi?”. Per van Gulik “peggiore della violenza sono la moltitudine di donne e bambine che non possono contare sulle forze di polizia, sugli assistenti sociali, su una protezione e un’assistenza adeguata, in quanto impossibilitate all’accesso”. E per sapere quello che succede e cosa fare nel concreto, bisogna parlare con le donne. L’esempio viene da una donna libica intervistata da van Gulik che ha raccontato di aver subito 14 anni di violenza da parte del partner, donna che negli ultimi 4 anni ogni volta si chiudeva in bagno e chiamava la polizia che a sua volta non faceva nulla: “la prima volta hanno interrogato lui, la seconda hanno chiesto a lei cosa era successo ma davanti all’uomo, mentre la terza, pur vedendo l’uomo che schiaffeggiava la donna davanti a loro, hanno testualmente dichiarato che non potevano fare nulla finché non scorreva del sangue. E allora – conclude – a che serve chiamare la polizia se non si viene aiutate?”. Sempre da un osservatorio internazionale Laurens Jolles, Rappresentante regionale dell’UNHCR per l’Europa sud-orientale, ci dice che le donne e le bambine sono la maggioranza dei 43 milioni di rifugiati e richiedenti asilo, e che “il 10% delle 120 mila persone che hanno intrapreso un pericolosissimo viaggio in mare per raggiungere l’Europa, sono donne e bambine”. Donne e bambine sfollate a rischio di violenza “che vengono colpite sia nel loro paese d’origine che nel paese in cui arrivano”: donne e ragazze che a volte scappano “perché temono la persecuzione di genere, il traffico sessuale, la violenza domestica, i matrimoni forzati, le minacce dei delitti d’onore, lo stupro”. Ci sono “125 mila donne – racconta Jolles – che hanno cercato aiuto in Europa perché a rischio di mutilazione genitale, e ogni giorno ascoltiamo il racconto di storie terribili di donne che hanno subito stupri e violenze nel percorso che hanno fatto per arrivare nel paese in cui cercano rifugio, con violenze che non si fermano neanche quando arrivano a destinazione”, a cui si aggiunge l’ingiustizia di veder rifiutata una domanda di asilo per ragioni che riguardano la discriminazione di genere, con il rischio di essere rispedite nei Paesi in cui sono sicuramente esposte alla violenza: una inefficienza che Jolles chiama “cecità di genere”.
Ma ci sono anche esempi positivi da cui prendere esempio, come quello descritto per la Spagna da Ángeles Carmona Vergara, Presidente dell’Osservatorio sulla Violenza di genere e domestica spagnolo, che ha descritto i vantaggi di una legge organica con un approccio olistico che a 360 gradi ha affrontato la violenza contro le donne, facendone diminuire l’impatto del 70 per cento. Una legge che oggi sta cercando di estendere il reato legato alla violenza contro le donne anche nel caso in cui a essere uccisi siano i figli come forma di vendetta da parte di partner o ex. Con questa legge dal 2004 in Spagna “viene applicato un approccio integrato, multidisciplinare per sradicare questo tipo di violenza e discriminazione, considerato come un fatto strutturale e politico” con cui affrontare il fenomeno da un punto di vista “sociale, giudiziario, sanitario, della sicurezza, educativo e dei mezzi di comunicazione”, come ha spiegato Carmona Vergara. Cioè un approccio che punta anche alla specializzazione e alla formazione di tutti coloro che sono coinvolti nel contrastare la violenza: una formazione che dura nel tempo e con diversi aggiornamenti. Un aspetto fondamentale, quello della specializzazione, rimarcato anche dal punto di vista giudiziario da Maria Monteleone, Procuratrice a capo del pool antiviolenza alla Procura di Roma, che ha affrontato la violenza contro le donne come “fenomeno criminale su cui mettere in campo un sistema che abbia efficacia” in tutta la sua complessità e dall’inizio alla fine, compreso il risarcimento alla vittima. Un’efficacia per cui sono necessari più elementi: “la specializzazione delle forze di polizia, magistratura e avvocati”, il “miglioramento della protezione della vittime anche nel tempo”, la “previsione di misure repressive proporzionate e dissuasive”, e “misure di monitoraggio e sorveglianza” dell’offender. “L’effettiva conoscenza del fenomeno da contrastare dà un quadro allarmante – dice Monteleone – con delitti, lesioni, minacce, violenza privata, maltrattamenti contro conviventi e fuori, stalking, e con un costante aumento delle denunce e delle misure cautelari e restrittive dell’uomo violento. Un incremento di denunce che vanno dalle lesioni fisiche fino al femminicidio”. Un intervento in cui Monteleone ha ricordato non solo i femminicidi ma anche i mancati femminicidi che hanno procurato “gravi danni fisici e una devastante violenza psicologica”. “Ancora troppo spesso – ha spiegato – le denunce arrivano quando le aggressioni sono attive da tempo e quando la donna non ce la fa più, violenze spesso trascurate e sottovalutate anche nei tribunali, come per esempio le denunce di ingiurie che in verità nascondono una violenza domestica”.
Nelle sue conclusioni alla conferenza, la turca Feride Acar, componente CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) e già CAHVIO (Committee on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence), ci ha tenuto a precisare che la Convenzione di Istanbul è stata redatta prendendo in considerazione le direttive già contenute in altri documenti, come per esempio la Cedaw, e che “la sua efficacia dipende da quanto le istituzioni saranno in grado di attuarla e da quanto la società civile sarà coinvolta”, perché “il senso di proprietà della Cedaw delle donne nel mondo, è stata la spinta principale a riconoscere la Convenzione agli occhi dell’opinione pubblica in generale”, un passo importante che va fatto “anche per la Convenzione di Istanbul in quanto fondamentale per la sua applicazione”. Per le politiche, ha precisato Acar, c’è bisogno di integrare un “livello multisettoriale” sia all’interno dei governi sia nel rapporto con la società civile con cui i governi si dovranno impegnare molto seriamente se vogliono avere successo. Un approccio olistico che significa anche prevedere “politiche globali che vadano verso l’uguaglianza tra donne e uomini al fine di affrontare le radici della violenza e non solo gli effetti” che – spiega Acar – non sono concetti così semplici in quanto “molti governi non hanno tanta voglia di collegare la violenza contro le donne con la disparità di genere”. E per controllare che tutto venga fatto secondo le disposizioni della Convenzione di Istanbul, che è vincolante, ci sarà un monitoraggio fatto attraverso un ente internazionale che seguirà i Paesi a livello nazionale, così che “certe nuove pratiche potranno essere modificate o suggerite o spinte a cambiare, grazie al fatto di essere additate e nominate” da questo organo che sarà costituito da un gruppo di esperti indipendenti e dal comitato delle parti che coopereranno in tandem. L’attuazione della Convenzione di Istanbul sarà valutata “in base a relazioni nazionali” e alla risposta dei Paesi coinvolti a questionari predisposti da questo organo di controllo, e se necessario “l’ente potrà recarsi in visita in loco” con il potere e “la facoltà di emanare raccomandazioni specifiche nazionali o generali in base alle sue osservazioni”. Acar chiarisce che questo organo è “un cane da guardia” dell’applicazione della Convenzione di Istanbul e che l’interlocutore principale per questo monitoraggio sarà la società civile, i media e i membri di questi organi. Un pool di esperti che dovranno essere indipendenti, capaci e preparati.*

Fonte: Bettirossa


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