Rai-Way, l’oro nero

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L’Italia Coraggiosa e Semplice (chissà perché le maiuscole) dell’ultimo decreto legge del governo prevede un taglio alla Rai di 150 milioni di euro per il 2014. L’equivalente di un aereo F-35, il mitico velivolo che probabilmente neanche un Tom Cruise particolarmente in forma riuscirebbe a far decollare, come dicono i maligni. Molto informati, però. Il mandato è chiaro: “efficientamento e cessione di quote di paretecipate”. Leggi sedi regionali e società degli impianti “Rai-Way”. Quanto al primo capitolo, la storia è vecchia e c’è se mai da chiedersi perché il vertice dell’azienda non abbia anticipato la prevedibile mossa dell’esecutivo. Non si tratta certo di ridimensionare la presenza territoriale, straordinaria opportunità nella stagione della rete, bensì di ripensarla. Risparmiare senza diminuire l’occupazione è possibile, ma non con la logica dei “tagli”, bensì con un vero ripensamento produttivo: magari coinvolgendo le numerose emittenti locali in cerca d’autore. Veniamo al punto dolente, dove emerge un atteggiamento curiosamente antistorico di un governo che si vuole giovane e innovativo. Cedere cospicue parti di “Rai-Way”, vale a dire il contenitore prelibato degli impianti, l’oro nero del servizio pubblico, dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri. Come si fa a privarsi del principale tratto di congiunzione con la crossmedialità, laddove altri operatori si sognano di notte la copertura tecnica dell’azienda pubblica? E’ una vicenda delicata, che ha un precedente opposto. Quando, nel 2001, l’allora presidente Roberto Zaccaria propose la cessione di una quota minoritaria a “Crown Castle”, il governo Berlusconi –per bocca dell’ex ministro Gasparri, scopertosi per l’occasione antiamericano- bloccò il tentativo. Ed era l’era della crescita delle telecomunicazioni. La pax televisiva non lo poteva permettere. La quota di “Ray Way” fu stimata in 1900 miliardi di vecchie lire, mentre ora saremmo scesi a 600 milioni di euro. Quando dici il mercato. E peccato che, nel frattempo, il competitore Mediaset si è enormemente rafforzato, acquisendo senza colpo ferire il gruppo privato Dmt, mentre altri soggetti sono tuttora figli di un dio minore. Bene ripensarci. Del resto, se si diminuisse seriamente l’evasione del canone attraverso una revisione delle modalità di riscossione e proporzionandone l’entità alla fiscalità generale (che senso ha che ricchi e poveri pagino lo stesso), altro che 150 milioni si raccoglierebbero. Almeno 500, parrebbe. Per non dire dello sconcio degli appalti esterni.

A proposito di canone, si suggerisce alla commissione di vigilanza, che in serata potrebbe licenziare il testo del nuovo Contratto di servizio, di rivedere il punto che mette in relazione il pagamento della tassa con la qualità tecnica della ricezione. La storia del canone finirebbe dopo qualche acquazzone. Il contratto in via di approvazione ricorda, si parva licet, il “Manoscritto trovato a Saragozza”, il famoso scritto del conte polacco Jan Potocki, che nacque infine dalla travagliata composizione di parti diverse, assemblate dopo anni.  Ha certamente una novità importante, laddove si tutelano con maggior rigore i cittadini portatori di handicap sensoriali. Non solo. E, per fortuna, è sparito il “bollino blu”, che doveva segnalare la qualità dei programmi. Per il resto, per ciò che si conosce è ancora un po’ un brogliaccio. Confidiamo nella commissione e nei suoi lavori. Il decantato digitale passa anche da qui, nel disegno di un sistema integrato in cui il servizio pubblico traini la rivoluzione tecnica e culturale, diventando un effettivo bene comune.

* da “Il Manifesto”, 23 aprile 2014


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