Il Capitale delle donne

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L’Istat ha calcolato come si monetizza la popolazione italiana: e le donne valgono la metà. Ma l’analisi matematica va capovolta…

Di Silvia Garambois

In fabbrica sono “risorse umane”. In economia “capitale umano”. Termini odiosi, tutto fuorché – appunto – umani. Da un lato donne e uomini considerati come macchine, dall’altra come un’azione in Borsa.

Se di “risorse” (e “esuberi”) si parla e molto, fin qui invece il “capitale umano” era soprattutto un codicillo nelle assicurazioni: ce lo ha spiegato bene il regista Paolo Virzì, nel (bel) film in cui, dopo aver raccontato le miserie umane di un mondo di arrivisti e finanzieri, finisce con il calcolo di quanto – poco – vale la vita di un cameriere messo sotto da una macchina. Quanti anni ha, quali prospettive lavorative e di produrre ricchezza: criteri simili a quelli per l’acquisto di una mucca da latte o di un’automobile.

Oggi invece, con l’Istat che per la prima volta ha “pesato” l’intera popolazione italiana, viene a galla in moneta sonante il valore della discriminazione. Scopriamo che la capacità di creare ricchezza e benessere nell’arco di tutta una vita, stando ai parametri degli economisti, per gli uomini vale 435mila euro. Per le donne quasi la metà: 231mila. E’ la fotografia impietosa delle carriere bloccate, dei part-time obbligati, degli stipendi sempre più bassi nel rapporto uomo/donna, anche per le professioniste, anche per le eccellenze. E il lavoro nero. E il minor numero di donne che lavorano.

Ma l’Istat fa anche un altro calcolo, che ribalta tutto: quanto vale il lavoro domestico . Qui l’asticella degli uomini si ferma a quota 384mila (il rubinetto che perde, il giardino da curare…), quella delle donne vola a 431mila (è il lavoro di cura: la casa, i figli, gli anziani…).

Questi numeri, in realtà, raccontano una storia diversa da quella della matematica: dicono che la ricchezza del Paese si produce grazie al lavoro oscuro, sottopagato o non pagato, dei milioni di donne che si occupano e preoccupano del benessere sociale, che è appunto il lavoro di cura – in mancanza di asili, di servizi per gli anziani, e più in generale di servizi per la famiglia. Queste cifre raccontano una società incapace persino di sfruttare le “risorse umane” delle donne, di affidare loro la guida delle aziende, nonostante le loro maggiori capacità di fare rete – e questo lo dice persino l’Istat.

Alla fine questi numeri danno un risultato capovolto: non sono le donne a valere la metà, ma solo con le donne, con il loro capitale intellettuale e le loro risorse, questo Paese ce la potrà fare.

Da giuliagiornaliste.it


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