Gianni Borgna. Quando la cultura di massa “produce” valori e ricchezza

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In punta di piedi, come nel suo stile, se ne è andato dalla terra Gianni Borgna, per raggiungere in cielo, lungo un infinito pentagramma d’argento, i suoi amati eroi della musica leggera, dei film neorealistici e d’avanguardia, della musica “colta” e dell’arte universale. Come fosse una lunga nota che continua a risuonare nelle nostre orecchie, anche dopo la fine dello spartito, proprio mentre va in scena il Festival di Sanremo, quel grande “caravanserraglio” nazional-popolare proprio da lui sdoganato, inviso ai palati fini “radical-chic” alle élites culturali, elevato invece a forma di cultura di massa, rivalutando testi e musiche che hanno fatto la storia del costume italiano (“ La grande evasione. Storia del Festival di San Remo – 30 anni di costume italiano”, 1980; “Storia della canzone italiana” , 1995-2004;  “L’Italia a Sanremo: cinquant’anni di canzoni, cinquant’anni della nostra storia”, 1998;  “La lingua cantata. L’italiano nella canzone d’autore dagli anni trenta a oggi”, 1995).

E sarebbe un grande riconoscimento ad un italiano che ha fatto tantissimo per la diffusione della cultura e dell’arte a Roma (tanto da far “ingelosire” i suoi emuli di Parigi e Londra, le due grandi capitali europee e mondiali dell’arte e della museologia), se in una di queste serate del Festival Fabio Fazio lo ricordasse “in punta di piedi”. Con lui scompare l’altro “Dioscuro” del Campidoglio, Renato Nicolini: due “comunisti atipici” che hanno fatto grande un’epoca di diffusione della cultura a Roma, tanto da essere presi ad esempio a livello europeo.

Gianni era uno di quei “comunisti” diversi, appunto tra virgolette, perché gramsciano nel PCI degli anni Settanta, quando nonostante le innovazioni di Enrico Berlinguer, la struttura e l’apparato erano ancora infarciti di massimalismo sovietico. Era fuori dagli schemi, amava come tanti di noi giovani, provenienti da esperienze movimentiste, dai Comitati di quartiere e dalle Comunità di base cattoliche, la cultura pop che veniva dagli Stati Uniti, miscelava la musica d’autore con quella appena rivalutata del folk e si spingeva oltre, anche a scoprire una certa forma d’arte in quella “leggera”, appunto festivaliera.

Sempre impegnato nelle istituzioni locali di Roma e della Regione Lazio, sia come consigliere sia come assessore alla cultura, fece anche parte della Biennale di Venezia. Ma di lui si ricorda l’impulso dato alle attività a livello internazionale durante la sua presidenza  della Fondazione Musica per Roma, all’Auditorium.

Ecco, Gianni era uno di quei pochi politici di origini marxiste, fiero della sua storia nel PCI, che credeva più nell’impegno pratico, nella divulgazione del sapere a livello di massa, anziché starsene nei salotti (letterari, mondani o televisivi) a discettare e criticare sui massimi sistemi. Come gli intellettuali che avevano studiato Gramsci, era uno che “amava sporcarsi le mani”, anche a costo di essere messo da parte dal suo stesso partito, che spesso gli preferiva altri “rampolli” per incarichi di livello nazionale.

Era mite nei comportamenti, pacato nelle discussioni, ansioso di spiegare come un maestro anche i concetti più difficili: non amava i palcoscenici!
Era un “politico alla mano”, di quelli che incontri per strada, disponibile a sentire le opinioni altrui, e con il quale si poteva parlare di tutto senza alcun pudore reverenziale. Certo, poco in sintonia con i tempi che corrono e i politici che hanno ormai introitato il “berlusconismo” comportamentale nel loro DNA.

Per lui la cultura non aveva confini, come l’arte: se ben organizzate e diffuse potevano produrre ricchezza, posti di lavoro e creare valori, “rendere liberi”. I cosiddetti “giacimenti culturali” erano per lui  strumenti di arricchimento interiore, ma anche di sviluppo della democrazia, della convivenza civile, della reciproca comprensione tra le diversità di opinioni.
L’ultima volta che ci incontrammo, parlammo a lungo anche della situazione disastrosa che attraversa il mondo della cultura e delle arti. In lui c’era una profonda amarezza per come era stato “ripagato” dei tanti sforzi spesi e i successi ottenuti all’Auditorium durante la sua gestione, e per la tendenza politico-amministrativa che si andava affermando anche nei nuovi governanti di centrosinistra, per la quale tutto ciò che è arte e che promana cultura deve essere visto con la lente del profitto, sottostando alla mannaia di qualsiasi “spending review”. D’altronde come non condividere la sua opinione, che oggi suona come un epitaffio: “Una vita senza cultura, senz’arte, senza poesia è una vita senza senso”!

E ancora una volta, dopo quasi 40 di sua conoscenza, l’ho ritrovato lì con la sua voce un po’ tremula, ma sicura, a parlare di impegno politico, di partecipazione in prima persona, come se il mondo dell’avvenire dovesse ancora cominciare, nonostante gli acciacchi dell’età, le delusioni, le emarginazioni e i forzati oblii.


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