Digitale di periferia

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Enrico Letta ha incaricato tre esperti (in verità due – il professore francese Pogorel e il consulente americano Scott Marcus- che si aggiungono al responsabile di Agenda digitale Francesco Caio) di stilare un rapporto sullo stato della banda larga in Italia. Chissà che bisogno c’è di fare un ennesimo studio, quando i dati sono notissimi. Tragicamente in fondo alla classifica dei paesi europei, l’Italia sta perdendo anche l’ex monopolista Telecom. Dopo le grida di dolore e le fiere reazioni nazionaliste del governo e di rilevanti settori del parlamento siamo al punto di prima. Con pochi denari il gruppo spagnolo di Telefonica ha di fatto acquisito Telco, la cassaforte di controllo dell’azienda telefonica, con buona pace delle agende digitali e dell’occupazione. In verità, tutte le scalate alla società sono avvenute con logiche tanto arrembanti e avventurose quanto taccagne. E’ una delle più tristi ed eloquenti storie italiane, dove il capitalismo fa il suo mestiere solo con chi lavora, raramente (Olivetti mon amour…) contribuendo ad irrobustire la catena del valore. Non è un caso se, con l’eccezione di Tiscali, Vodafone è inglese, Fastweb svizzera, H3G cinese, Wind russo-norvegese. E dire che alla fine degli anni novanta l’Italia si era agganciata all’Information communication technology. Per la cronaca, non per cantare qualche inno nazionale.
Torniamo al punto. Se Telecom passa definitivamente di mano, ogni chiacchiera sulle magnifiche sorti delle tlc nostrane diventa sgradevole e menzognera. Chi e come investe nella e sulla rete? Anzi, che fine farà il tesoro di famiglia se già ne è messo in discussione il futuro? La rete è l’elemento cardine per il futuro, intrecciando l’innovazione strutturale con l’intelligenza della gestione: smart city, Internet delle cose, piattaforme per i servizi nella formazione, nella scuola, nella mobilità, nella sanità, nel turismo e così via. I nomi stessi dell’innovazione possibile sono numerosi e affascinanti: banda larga e ultralarga, Lte di quarta e quinta generazione, Cloud computing, virtualizzazione delle reti. Parliamo della diffusione dei saperi nell’era contemporanea, non di giochi per nicchie eccentriche o per internauti ossessionati. Senza un riferimento industriale concreto del e nel paese il discorso diventa fumoso e impraticabile. Tanto è vero che fu subito depositata una proposta di legge (dal senatore Massimo Mucchetti) sulla revisione della legislazione sull’offerta pubblica di acquisto (Opa), che scatta attualmente solo nel caso l’acquirente intenda acquisire più del 30% del capitale sociale. Che fine ha fatto e qual è l’effettiva intenzione del governo? Un’altra falsa partenza, un po’ di propaganda? E il «golden power», residuo di un ruolo pubblico travolto dalle privatizzazioni? Fatto il regolamento attuativo, perché tutto tace? Le scadenze europee non verranno osservate sicuramente, ma forse Bruxelles è uno spauracchio solo quando fa comodo per le politiche di tagli della spesa, non quando è in questione il rispetto dei piani strategici. Peccato che l’Italia tanto nelle reti di nuova generazione, quanto nella vecchia Adsl e ovviamente nella velocità media del download sia il Sud del Sud. Non sarà un caso se l’intero assetto della conoscenza, dalla ricerca alle infrastrutture, sia in condizioni così miserevoli.
E già, siamo un paese che vive di televisione, laddove quest’ultima ha dominato per anni la politica grazie a Berlusconi. Ma qui il berlusconismo vive e vegeta, malgrado tutto. Attenzione, però. Persino la sovrabbondanza del consumo di tv, infatti, è a rischio. Lo schermo del futuro sarà ad altissima definizione, la quale nasce solo se si realizza l’integrazione cross-mediale. Il paradosso italiano sta qui: cellulari debordanti, esposizione al video abnorme, ma condizioni tecnologiche da periferia innocua dell’Impero.

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