Aspettando l’Occhetto che non c’è. Intervista con Achille Occhetto,autore del libro “La gioiosa macchina da guerra”

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Achille Occhetto: l’uomo della svolta, l’uomo dei sogni infranti e delle speranze tradite, l’uomo che ha creduto nel progetto di un partito nuovo ed è stato sconfitto. Un uomo lucido, tuttavia, che forte della propria onestà ha deciso di compiere un ennesimo, importantissimo regalo ad una sinistra smarrita e disillusa, priva di punti di riferimento e apparentemente rassegnata alla sconfitta.
Questo è “La gioiosa macchina da guerra”: un’autobiografia morale e collettiva, un viaggio alle radici della nostra cultura e delle nostre tradizioni e anche, naturalmente, uno sguardo al futuro. Nella speranza che quel viaggio possa riprendere oggi con nuovi interpreti, senza slogan e con la forza, la capacità e il coraggio di coinvolgere davvero le generazioni nate dopo il crollo del Muro.

Nella prefazione al volume, Michele Serra scrive: “La Bolognina è una pagina scritta nel secolo scorso, ma per i lettori di adesso e di domani. Si tratta solo di aspettare, compagno Akel, che tutto ricominci, e qualcosa, finalmente, finisca”. Cosa auspica che ricominci e cosa auspica che finisca il prima possibile?
La questione fondamentale è che finisca una fase che è stata di deriva pericolosissima verso il moderatismo e verso una concezione della politica come la ricerca del potere per il potere e del governo per il governo. In sostanza, c’è stato un grande abbaglio, un grande equivoco perché con la svolta è chiaro che noi volevamo superare una visione di antagonismo votato semplicemente a una sorta di continua ginnastica rivoluzionaria all’opposizione, ponendo con fermezza il problema di governare il Paese. La cosa che è sfuggita è che si deve governare per qualche cosa, che porsi il problema del governo non significa pensare che l’opposizione sia un peccato; si può governare anche stando all’opposizione, qualora non si abbia una maggioranza effettiva nel Paese. Invece quest’idea elementare della democrazia è stata abbandonata e si è cercata qualsiasi scorciatoia pur di garantire una presenza al governo del Paese. Questo ha indotto a una forma di moderatismo (perché questa ricerca porta di per sé a una forma di moderatismo) e, ahimè, sul piano del costume, anche a qualcosa di non molto chiaro per ciò che riguarda la moralità politica.

A proposito di svolte, Norberto Bobbio asserisce: “Fra tutte le lezioni che si possono trarre dalla storia, nessuna è più istruttiva di quella delle svolte mancate (o, se si vuole, nessuna più crudele di quella degli entusiasmi ricaduti su se stessi). La furia del vento squassa il bosco; ma dopo, ci si accorge che solo qualche tronco è stato abbattuto, solo qualche ramo spezzato”. È un po’ la storia della sinistra italiana negli ultimi vent’anni.
Questa frase è molto amara e molto triste. Credo, tuttavia, che le svolte, ma anche le rivoluzioni, abbiano un punto di partenza che poi lascia sempre un seme, anche se in seguito ci sono momenti di restaurazione; ma la restaurazione non riesce a coprire il seme che è stato lanciato come momento dell’innovazione. Non a caso, tutti i movimenti innovatori guardano più degli altri al futuro ma ritornano alle origini. Si tratta, pertanto, di saper disseppellire le motivazioni di fondo che ci portarono, ad esempio, in Italia ad una svolta rispetto alla vecchia tradizione comunista.

Tornando al libro, si tratta di una sorta di autobiografia collettiva, di una narrazione che, partendo dalle proprie vicende personali, coinvolge e racconta l’intera storia della sinistra italiana nel Novecento. Oggi si dice che manchino le grandi narrazioni; è proprio così, o manca soprattutto la capacità degli uomini di inserire il proprio pensiero all’interno di un processo collettivo?
Credo che la motivazione da tenere presente sia la seconda perché è sfuggita l’idea stessa di un pensiero collettivo. Viviamo in una situazione in cui c’è solo il presente: non c’è più la dialettica del rapporto tra passato, presente e futuro e quindi, proprio perché manca questa passione verso il ritrovamento delle proprie radici, anche per trasformare profondamente le radici stesse e la realtà, è chiaro che non c’è motivo di narrazione. La novità sta nell’accadimento quotidiano: un accadimento che viene rapidamente bruciato. D’altro canto, c’è una responsabilità anche di una parte del pensiero dell’ultima fase del Novecento che in una critica, in parte giusta, dell’ideologismo, dello storicismo o di antiche visioni ideologiche, ha però distrutto l’idea del rapporto con il passato, l’idea stessa di concetto. Rimane l’atto, l’atto puro.

A proposito dei tratti caratteristici di quest’opera, direi che si tratta di un’“autobiografia collettiva e drammatica”. Lei parla, ad esempio, del “male oscuro della sinistra” e traccia una forte critica al moderatismo. Tuttavia, viste le sue aperture nei confronti di Ciampi, Segni e poi dell’Ulivo stesso, è lecito affermare che, in fondo, anche Occhetto è in una qualche misura un “moderato”?
Una sinistra moderna, una sinistra di governo, una sinistra che crede nei propri obiettivi deve essere aperta nei confronti dei moderati. Ma perché ci sia questa dialettica fra sinistra e moderati, bisogna che ci sia anche la sinistra. Se la sinistra si fa partito moderato, viene a mancare il sale della terra, viene a mancare qualche cosa di questo rapporto. La moderazione, innanzitutto, va considerata come positiva se è sintomo di tolleranza, di una visione verso gli altri e le altre posizioni; è negativa, invece, se ci ricorda noti personaggi della letteratura italiana come il Conte zio di Manzoni: quella è una moderazione che lo stesso Manzoni, che era senz’altro un moderato, prende giustamente in giro.

A proposito del “male oscuro della sinistra”, non possiamo non soffermarci un attimo sul titolo: “La gioiosa macchina da guerra”, un’espressione ironica che in questi anni è stata la sua croce, al punto che è stato considerato uno dei responsabili dell’ascesa al potere di Berlusconi. In questa scelta, senz’altro non casuale, c’è più un desiderio di rivalsa o la volontà di mantener viva la memoria storica di quei giorni?
Fondamentalmente, c’è un desiderio di memoria storica perché sottolineo un aspetto cui consiglio di prestare attenzione sia a coloro che leggono la politica sia, in particolare, ai giornalisti che molte volte hanno parlato di questo periodo con grande leggerezza. Credo di aver ricostruito abbastanza bene il periodo che va dalla svolta della Bolognina al 1994 e, quindi, di aver messo in fila i passaggi che hanno poi condotto al berlusconismo. Uno degli obiettivi degli storici è sempre quello della tematizzazione, della periodizzazione storica; ebbene, se io fossi uno storico, non considererei il ’94 come il punto di partenza del berlusconismo perché è vero che all’epoca Berlusconi ebbe la capacità di federare tutte le forze che erano state messe ai margini da Mani Pulite più le forze anti-sistema come la Lega e il Movimento Sociale Italiano e di vincere le elezioni; tuttavia, va anche ricordato che la sua maggioranza entrò immediatamente in crisi e che ciò condusse poi alla vittoria dell’Ulivo nel 1996. Il berlusconismo nasce per responsabilità della sinistra, a causa di una serie di atti che hanno fatto rinascere più volte Berlusconi, che si trovava già in crisi, e gli hanno dato un potere fortissimo nella società italiana. Pertanto, per capire sia il berlusconismo sia cosa è successo nella sinistra e nel centrosinistra, ritengo che una ricostruzione storica onesta e attenta sia quanto mai necessaria.

Ciò che sorprende nella sua descrizione di quella stagione politica e civile è l’estrema attualità di certi passaggi: il fallimento di una classe dirigente e di un sistema di potere, l’anti-politica e il populismo al diapason, il rifiuto del vecchio e l’aspirazione al nuovo qualunque sia la sua forma, le divisioni e le lacerazioni all’interno della sinistra. Insomma, in vent’anni non è cambiato nulla!
Sì, ma come scrivo nel libro ci sono delle sconfitte che nascono da battaglie che si perdono: non è deplorevole perdere. Se crediamo nella democrazia, prima o poi tutti vincono o perdono e ciò non costituisce un’onta. Non voglio certo paragonarmi a lui, ma ha perso anche uno statista e uno stratega come Napoleone. Non è questo il problema: il problema è che si può perdere per colpa e si può perdere per dolo. Dopo si è incominciato a perdere per dolo, cioè si è fatto di tutto per creare le condizioni della propria sconfitta e questo è un aspetto estremamente grave della situazione politica.

Il che ci riporta alla stretta attualità. In una recente intervista a “Left”, infatti, lei affronta il tema del rapporto fra libertà e uguaglianza, spiegando che in Occidente si è affermato il concetto di libertà a discapito di quello di uguaglianza e in Oriente il concetto di uguaglianza a discapito di quello di libertà. Come valuta il fatto che nella Patria dell’illuminismo e di princìpi assoluti come la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza, oggi sia in ascesa, come del resto un po’ in tutta Europa, un partito di estrema destra come il Front National?
Non è una novità assoluta perché la Francia è il paese della grande sinistra, della sinistra della Rivoluzione francese e anche del Fronte Popolare, delle grandi svolte e dell’intellettualità di sinistra; tuttavia, è anche il paese di una forte e direi, rispetto all’Italia, molte volte anche colta destra che ha una sua presa in una parte profonda della società francese che, a differenza della nostra, tra l’altro, è divisa tra una società urbana elevata come quella parigina e una società provinciale, a volte, dal punto di vista culturale e politico, arretrata. Tuttavia, certo, c’è una novità che riguarda un po’ tutta l’Europa: di fronte alla mancanza di idee e progettualità delle forze democratiche, in un contesto di profonda crisi, sociale, economica e morale, è chiaro che prende il sopravvento una rivolta di destra. D’altro canto, anche il fascismo in Italia è nato in seguito all’indebolimento della cosiddetta “Italietta”, come veniva chiamata, cioè di un’Italia che avevo perso grinta, capacità di risoluzione dei problemi, che era immersa nel disordine. Tutte le volte che si creano queste situazioni di ambiguità, in cui c’è uno scontro, come diceva Gramsci, tra due forze (in questo caso, centrodestra e centrosinistra) senza  che nessuna delle due prenda il sopravvento, può intervenire un terzo elemento che, tendenzialmente, è un elemento dispotico, coercitivo e di destra.

A proposito del pensatore di Ales, Gramsci parlava di “egemonia culturale” della sinistra. Negli ultimi vent’anni, invece, la sinistra si è prima appiattita sulle parole d’ordine del pensiero neo-liberista e poi rifugiata in una pericolosissima sottovalutazione dei fenomeni estremisti di cui abbiamo parlato poco fa. Basti pensare che alcune delle rivendicazioni di Marine Le Pen, leader del Front National, un tempo erano rivendicazioni tipiche della sinistra…
Tutte le volte che noi siamo di fronte a un riformismo debole, pallido, imbelle e incapace di affrontare i problemi fondamentali dell’uguaglianza e della miseria della gente e i nodi basilari della trasformazione della società, nasce sempre una destra che ha come punto di partenza, per conquistare le masse popolari, obiettivi fondamentali della sinistra. È successo in Germania, è successo con la rivoluzione sociale fascista e succederà ancora. Direi che questo avviene quando la sinistra non sa fare fino in fondo il proprio mestiere.

A tal proposito, tornando al libro, all’inizio della seconda parte c’è una bellissima riflessione di Bobbio: “O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia? La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?”.
Questa citazione mi piace molto; ironia della sorte, Bobbio è uno di quei personaggi che un tempo avremmo considerato un moderato ma rispetto agli attuali dirigenti della sinistra italiana è un gigante della rivoluzione come pensiero. Il che la dice lunga su come la deriva moderata sia andata avanti. Bobbio dice una cosa estremamente giusta: dice persino agli stati, alle potenze democratiche: non cantate vittoria, perché il comunismo ha avuto certo dei mezzi e degli strumenti sbagliati che non sono riusciti a realizzare determinati obiettivi anche utopici; tuttavia, quegli obiettivi, quei problemi sono ancora tutti sul tappeto e quindi la verità interna del comunismo va, in qualche modo, onorata attraverso una capacità effettiva di risolvere il tema dell’uguaglianza che oggi, a differenza di dieci anni fa, sta diventando sempre più evidente anche agli occhi di numerosi economisti. Da tema umanitario (l’uguaglianza è giusta perché è giusto che gli uomini siano considerati uguali) sta diventando, finalmente, un tema fondamentale della stessa economia politica perché, se non si redistribuisce in modo profondamente diverso la ricchezza, è chiaro che non c’è consumo né produzione né possibilità di sviluppo.

Uno dei racconti più affascinanti del libro riguarda la sua esperienza da segretario regionale della Sicilia, quando Berlinguer, giunto ad Agrigento per la campagna referendaria sul divorzio, propose addirittura di cambiare nome al PCI e lei propose di chiamarlo: Partito Comunista Democratico. Avete mai sofferto per il fatto di essere considerati da una parte della società italiana non pienamente democratici?
Noi non abbiamo mai pensato nel nostro foro interiore di non essere democratici, anche perché in Italia, questa è stata l’originalità del PCI, abbiamo avuto la capacità di raccogliere tutte le istanze democratiche, comprese le più lontane dalla nostra interpretazione ideologica, che serpeggiavano nel Paese. Eravamo, però, consapevoli di far parte di uno schieramento che non era la quintessenza della democrazia e soprattutto che aveva calpestato, a volte persino in maniera terribile, la libertà. Si sentiva, dunque, l’esigenza di uscire da questo schieramento. Quando Berlinguer mi propose il cambiamento del nome, pose la questione in questi termini: “Noi abbiamo fatto più mutamenti di quelli che Lenin aveva apportato rispetto alla socialdemocrazia di Kautsky, eppure ha cambiato il nome. Cosa ne diresti se cambiassimo il nome?”. Inizialmente, rimasi un po’ spaventato; poi rimasi sorpreso e, infine, entrai nel discorso e dissi: “Certo, sarebbe utile, interessante”. “E allora che nome gli daresti?” mi domandò Berlinguer, e io risposi: “Partito Comunista Democratico”. E Berlinguer: “Eh no, questo non va bene, perché significherebbe ammettere che non siamo democratici”. Berlinguer pensava che fossimo democratici, ma che fosse comunque necessario un mutamento di prospettiva.

Ciò che mi ha sempre colpito nella storia della sinistra italiana è il suo essere profondamente intrecciata con il Piemonte e, in particolare, con la città di Torino. Se pensiamo ad alcuni nomi (Bobbio, Gobetti, Gramsci, Togliatti, Longo, Occhetto, Fassino ecc.), infatti, notiamo che sono tutti accomunati da questa caratteristica. Come siete riusciti a coniugare le lotte degli operai nelle fabbriche con questa sorta di borghesia intellettuale della sinistra?
Il concentrato di queste forze intellettuali è anche molto legato al fatto che il Piemonte, per condizioni storiche che sarebbe lungo ricordare, è stato al centro del processo di riunificazione nazionale e ne è stato il motore. Da questo punto di vista, Torino, la mia città, ha svolto una funzione particolare e ne ha avuto un ritorno sia sul piano della formazione culturale e intellettuale sia sul piano di una concentrazione particolare di orgoglio e anche di volontà. Tuttavia, c’è pure un secondo motivo: l’intellettualità moderna, nella parte iniziale del Novecento, era quell’intellettualità che era profondamente curiosa e attenta, sia in forme letterarie sia in forme politiche, allo sviluppo tecnologico e alla presenza della classe operaia nella società. Questo non poteva avvenire nella parte più contadina del Paese. Ciò ha favorito la nascita di un nuovo pensiero da parte degli intellettuali che si concentrarono su quello che poi sia Gramsci che Togliatti chiamarono la volontà di quegli studenti (che poi diventarono importanti personaggi intellettuali o politici) di andare a scuola della classe operaia. Così facendo, hanno creato una “nouvelle vague” di pensiero, di modo di essere, di concezione della cultura, del Paese e della politica.

Un altro tratto commovente del libro è il racconto dell’ultima estate di Cesare Pavese a Forte dei Marmi, nel 1950, quando lei aveva appena quattordici anni. Che influenza ha avuto sulla sua formazione politica e culturale?
Io ero ancora troppo piccolo perché si possa parlare di influenza culturale in quel momento. È sicuro che l’ambiente della casa editrice Einaudi, di cui facevano parte all’epoca personalità come Pavese, Calvino e la stessa Natalia Ginzburg, influenzò molto la mia famiglia, il suo orientamento culturale e anche il suo orientamento civile e politico. Da questo punto di vista, devo dire che mi ha lasciato quel profumo di sinistra, però legata a una visione tollerante, che mi sarebbe stato molto utile per diventare l’uomo della svolta.

A tal proposito, mi tornano in mente i racconti di Giorgio Bocca e Giorgio Tosatti sulla Torino dell’immediato dopoguerra. Quanto sarebbe importante riscoprire oggi quello spirito azionista, profondamente costituzionale?
Mi hai fatto la domanda chiave, la stessa che mi sono posto nel momento della caduta del Muro di Berlino, perché idealmente ho pensato che quel muro non fosse solo un muro di pietra ma un muro che aveva diviso, appunto, quelle diverse anime che io avevo visto in quella Torino che, pur essendo più giovane di Bocca, mi aveva lasciato la stessa sensazione: di una pluralità di anime, costituenti di una possibile repubblica democratica molto avanzata sul terreno morale, sociale e politico.

Lei, in quell’intervista a “Left”, auspica di fatto un nuovo Sessantotto, un momento “in cui la gente riprende in mano il proprio destino”. Berlinguer disse ai giovani di allora: “Venite dentro e cambiateci!”. Che consiglio dà a un ragazzo della mia età innamorato della politica? E alla sinistra che non riesce più a parlare ai giovani?
Credo che oggi sia difficile dire quello che ha detto allora Berlinguer. Innanzitutto, perché non c’è nessuno nei partiti che abbia il coraggio di dire ai giovani: venite e cambiateci! Al contrario, hanno la sensazione di non dover essere mai più cambiati nel corso dei secoli. E poi perché non capiscono che oggi esiste una politica al di fuori dei partiti che non è affatto anti-politica ma, all’opposto, è un movimento estremamente vivo, che si esprime nelle associazioni, sui temi, sulle questioni urgenti della vita sociale e politica e c’è una tensione anche morale che si muove su una banda d’ascolto diversa da quella su cui si muovono i partiti. È possibile trovare un rapporto tra questi due piani? Io un tempo parlavo del fatto che bisognasse trovare delle linee di scorrimento fra i partiti e i movimenti, la società civile e le associazioni. Per trovare una linea di scorrimento, però, è necessario che entrambi i poli siano vivi e il polo dei partiti non mi sembra molto vivo. Per questo, ho parlato della necessità di qualcosa di nuovo che non può nascere da dibattiti interni a queste forze politiche, lo vediamo proprio in questi giorni, perché è come pestare sempre la stessa acqua nello stesso mortaio. Per questo, io invoco che accada qualcosa di nuovo nella società che spinga verso nuovi lidi.

Come vorrebbe essere ricordato da un ragazzo che un domani la studierà sui libri di storia?
Se ci sarà tempo per ricordarmi, perché il mondo andrà avanti così velocemente che potrà anche travolgere tutto, vorrei essere ricordato semplicemente come un uomo politico che ha avuto una forte passione, ha creduto nelle cose che faceva e ha tentato di cambiare qualcosa di utile per la sinistra italiana.


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