Quirico è libero, ma ai giornali italiani “la Siria non interessa”

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Domenico Quirico e ormai lontano dalla Siria che “lo ha tradito”, tenendolo prigioniero per 5 lunghi mesi. Insieme al suo compagno di sventura, lo storico belga Pierre Piccinin, porta con sé, in Italia, dettagli preziosi per interpretare l’intricata storia delle guerra che sta mietendo vittime ogni giorno. La storia di una rivoluzione che, da quanto ha iniziato a riferire Quirico, al suo arrivo a Ciampino, prima era “democratica”, ma ora è “un’altra cosa, è pericolosa”. Ma mentre la notizia della loro liberazione è sulle prime pagine di tutti i giornali italiani e non solo, in Siria restano pochi giornalisti, ogni giorno di meno, a raccontare le vicissitudini e la quotidianità di chi quella guerra la combatte o la subisce. Spesso veri e propri “cani sciolti”, non inviati da questa o quella testata, ma “free-lance” che affrontano le spese, le difficoltà e i pericoli della loro presenza, spesso sotto i bombardamenti, per poter raccontare la guerra da dentro, svelando i dettagli della quotidianità, i rumori delle strade, le testimonianze che nessuno, altrimenti, raccoglierebbe. Quello che raccontano si può trovare sui loro blog, o a volte solo sui profili Facebook, difficilmente “bucano” le pagine dei giornali o accendono i riflettori dei telegiornali.

“Sinceramente felice che Quirico sia libero – si dice Gabriele Del Grande, giornalista freelance esperto di nordafrica e medio oriente, da alcuni giorni in Siria (e non per la prima volta) – Però che tristezza la stampa italiana: rilasciano un giornalista italiano sequestrato in Siria e tutti gli dedicano la prima pagina – Proponi pezzi dalla Siria, come quelli che state leggendo in questi giorni, e ti dicono: no grazie, la Siria non ci interessa… E noi pochi giornalisti che sopravvivremo a questa crisi finiremo per scrivere soltanto all’estero, come sto facendo io in questo mio ultimo viaggio all’inferno”.

Tra le storie raccontate in questi ultimi giorni da Del Grande sul suo profilo Facebook, c’è quella di Nour, un ragazzo di 14 anni la cui infanzia, scrive, “è finita il giorno in cui un mortaio gli è caduto a pochi passi e gli ha ucciso l’amico. Di quel giorno, lui porta sul corpo una mappa di cicatrici e ricordi. E un doppio mento di punti sotto la bocca. Da quel giorno – racconta Del Grande – le bombe non gli fanno più paura. Le sfida ogni mattina, quando scende con la moto sul fronte. In mezzo a quegli uomini in mimetica armati di kalashnikov sembra ancora più piccolo dei suoi quattordici anni. Ma lui si muove sicuro e fa la voce grossa. In mano impugna una piccola telecamera digitale, e filma tutto quello che succede. È il suo contributo alla rivoluzione. Dare una mano allo sgangherato ufficio di comunicazione del comitato rivoluzionario del quartiere”.

Un pensiero, alcuni giorni fa, Del Grande lo ha rivolto dalla Siria anche a Padre Dall’Oglio, sulle cui sorti ancora incombe il mistero: “E’ bello constatare come tantissimi siriani ad Aleppo conoscano e stimino padre Paolo Dall’Oglio. Medici, attivisti, insegnanti, combattenti. E tutti, insieme a noi che lo conosciamo di persona, sono preoccupati per la sua sorte, dopo che si sono perse le sue tracce nella città di Raqqa da ormai un mese”. In merito al possibile intervento americano, invece, Del Grande ha interpellato Hammada, un avvocato che è sceso in piazza fin dalle prime manifestazioni, ma non ha mai preso le armi e oggi è vice presidente di un consiglio di quartiere nelle zone liberate di Aleppo. Ecco cosa pensa dell’intervento americano: “Se gli americani bombardano – spiega a Del Grande – lo fanno per i loro obiettivi, non certo per il bene del popolo siriano. Il mondo ha abbandonato la Siria. Centomila morti e non si è mosso nessuno. Tutto il mondo complotta alle nostre spalle. Persino gli Stati del Golfo che dicono di appoggiare la rivoluzione, lo fanno perché hanno un loro progetto in Siria. Non ci aspettiamo niente dal mondo. Non sono neanche convinto che gli americani bombarderanno per davvero alla fine. Se la rivoluzione vincerà o no, dipende soltanto da noi. Se non riusciamo ad essere uniti, non vinceremo. Non si può pensare solo alla fine del regime se poi non abbiamo obiettivi dopo la liberazione. Invece siamo divisi: alcuni combattono, altri fanno il lavoro umanitario, e l’opposizione all’estero a fare le conferenze negli Sheraton. Non sono più credibili. Qui la gente muore ogni giorno sotto le bombe e loro negli alberghi a cinque stelle a spese del Qatar. Ma in Siria non ci mettono piede. La gente non si fida di loro, non ci rappresentano. Se prenderanno il potere sarà solo con la forza. Magari con le bombe americane o con i soldi dei Paesi del Golfo”.
Da redattoresociale.it


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