Dopo il populismo berlusconiano, il deserto

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Anni di berlusconismo e, più recentemente, di mitologia tecnocratica hanno buttato l’Italia ai margini del villaggio globale. Nei non-luoghi delle periferie dell’impero. Gli esempi sono tanti, c’è solo l’imbarazzo della scelta. I ritardi colossali dell’agenda digitale, la mancanza di una politica del lavoro anche nei mondi della cultura e dell’informazione sono ferite dolorose. Ma i dati forniti opportunamente da Federculture sulla corsa verso il baratro dell’investimento e dei consumi in un territorio ormai vastissimo ci interpellano su un vero e proprio mutamento antropologico avvenuto nel bel paese. Di questo si tratta, perché non è credibile la versione consolatoria per cui qualche spirito maligno si è inserito, contagiando pure i buoni, magari solo distratti. No. I tagli da macelleria messicana che hanno portato a ridurre dal 2008 ad oggi di due terzi le risorse del ministero competente e a uccidere pezzi interi di attività nelle diverse arti belle con conseguenze abnormi e incalcolabili per il cinema, il teatro, la musica, la danza, il libro, l’editoria, i contenuti digitali creativi; le ingerenze: la fortissima riduzione dei consumi nel solo anno orribile 2012: sono una linea, non una dabbenaggine. Se si prende in esame l’intera filiera dei saperi, dalla scuola, all’università, alla ricerca il discorso è lo stesso. Tagli, massacri, ignobili complicità omissive costituiscono un modo di intendere il futuro dell’Italia: da spazio unico di tesori inarrivabili a zona di conquista e di occupazione dell’immaginario collettivo.

Il populismo autoritario centrato sulla vecchia televisione generalista ha scandito il tempo della crisi e della degenerazione. Ora siamo alla desertificazione. Il berlusconismo non è stato solo un fatto politico, bensì principalmente il lievito di taluni aspetti antichi e attuali annidati nel ventre molle del paese. Qui c’è un vecchio tragico errore delle forze del centrosinistra italiano, che non capirono o non vollero capire, e non regolarono quando potevano un universo decisivo. In tale quadro la cultura rischiava di essere un antidoto. L’attacco al lavoro intellettuale, precarizzato a oltranza e reso spesso una nuova schiavitù dell’epoca post-moderna, è stato la vera politica delle destre e il buco nero di una sinistra di sovente subalterna. Non si capirebbe se no il motivo della situazione in cui versano gioielli come Pompei. Tra l’altro, la cura distruttiva si è propagata alle autonomie e agli enti locali, ridotti quasi alla povertà. Questo è stato il disastro liberista, declinato in Italia dall’invasione televisiva. La rete, forse, potrebbe dare una mano a risalire la china. Va superato quello 0,2% sul bilancio pubblico che ci ha buttati nelle zone basse della classifica mondiale, dove stiamo pure per il tasso della libertà d’informazione.
La protesta non basta. Servono progetti alternativi, come predicano da anni studiosi come Settis e come sostengono con tenacia movimenti e associazioni culturali, a partire dalla Bianchi Bandinelli. E come operosamente fanno con spirito eroico numerosissimi lavoratrici e lavoratori del Mibac, operatori e addetti di musei, biblioteche, archivi, enti culturali. Considerati probabilmente dai poteri più o meno forti poco omologati al pensiero unico, obiettivamente sovversivi. Il ministro Bray certo non la pensa così e gli auguriamo benevolmente di passare tra i cattivi. Si troverà in ottima compagnia, perché c’è aria di “rivoluzione culturale”: la suggestione dei “beni comuni” è tra noi. Del resto, nella società della conoscenza investire nella cultura non è un obiettivo tra gli altri. Non è una parte. È tutto. Ontologicamente. Nel bel volume di Tommaso Montanari (“Le pietre e il popolo”, 2013) il discorso è chiaro ed amaro. Riprendere i fili non è solo una boccata d’ossigeno per il turismo. È l’inveramento dell’articolo 9 della Costituzione.

* da Il Manifesto


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