Rispetto e dignità. Ora!

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Il simbolo di questo otto marzo dovrebbe essere rappresentato dalle milioni di donne nel mondo scese recentemente in piazza il 14 febbraio per dire basta alla violenza contro le donne. Dovrebbe essere rappresentato dal coraggio di una ragazzina come Malala Yousafzai, che è stata gravemente ferita dai militanti talebani, per il suo costante sostegno al diritto delle bambine all’istruzione. Malala ha continuato a lottare nonostante la difficilissima situazione di minaccia costante in cui vivono le donne e le ragazze in Pakistan. Non ha mollato di un centimetro la sua battaglia e ha pagato un prezzo elevatissimo. Come lei le volontarie pakistane per la immunizzazione dei bambini poveri, hanno pagato con la vita il loro impegno civile.

Centinaia di milioni sono le donne vittime di violenza. Violenza fisica, psicologica, sessuale, politica ed economica. E non è un caso che quest’anno la 57° Sessione della Commissione ONU sullo Stato delle Donne incentri i suoi lavori proprio sulla lotta alla violenza contro le donne. La violenza nei confronti delle donne e ragazze colpisce circa 7 donne su 10 nel mondo. Rompere l’indifferenza e il silenzio è possibile e già succede, sostiene Michelle Bachelet Direttrice esecutiva di UN Women. Ma è difficile condividere il suo ottimismo.

Ancora oggi in tutto il mondo le donne sono a rischio. la violenza contro donne e bambine è trasversale. si presenta nei luoghi di lavoro, nelle famiglie, nelle istituzioni, nella società. L’ILO nel suo intervento alla 57° Sessione della Commissione ONU sullo Stato delle dDonne, sottolinea come nonostante l’assenza di dati disaggregati, tra il 40 e il 50% delle donne dei paesi della UE sono vittime di molestie sessuali nei luoghi di lavoro. una piccola ricerca nei paesi asiatici evidenzia un dato simile: dal 30 al 40% delle lavoratrici subiscono molestie simili.

Ciononostante però è pensare che i governi abbiano un sussulto di coraggio e adottino misure robuste a livello internazionale e nazionale affiancate da programmi operativi efficaci e norme penali chiare. Ciò nonostante la grande forza delle donne può produrre un cambiamento fondamentale, restituendo innanzi tutto la voce alle centinaia di milioni di donne che non hanno ne voce, ne libertà personali e sociali e subiscono discriminazioni nella istruzione, nel mondo del lavoro, nell’accesso alla politica. Tutte violenza inaccettabili anche se la violenza fisica e sessuale è da sempre il maggior strumento di potere contro le donne, in ogni latitudine in ogni situazione. Violenza domestica e ancor più violenza politica.
Soprattutto nei paesi senza democrazia la violenza contro le donne è organizzata ed è usata come arma di repressione. Una violenza che rimane impunita, come nei recenti casi delle donne egiziane e tunisine, che hanno denunciato la reiterata impunità a seguito dei casi di molestie sessuali e stupri perpetrati nei loro confronti nel corso delle manifestazioni di piazza.
Violenze che mirano ad impedire uno spazio pubblico per le donne, cercando di marginalizzarle e di umiliarle per impedire la loro partecipazione politica e sociale. Lo stesso dicasi per la violenza sessuale perpetrata per anni dalla giunta militare birmana nei confronti delle donne soprattutto delle minoranze etniche. Donne anche in avanzato stato di gravidanza, bambine, giovani, anziane, senza distinzione sono state vittime non solo di lavoro forzato, minacce, torture, ma anche di violenza sessuale. Una violenza volta ad istillare terrore, ad umiliare e distruggere intere comunità, a punire, ricattare e a attuare una pulizia etnica. E a costringere interi villaggi a fuggire. E ancora oggi, nonostante il processo di democratizzazione in atto, arrivano denunce di violenze sessuali da parte dei militari, in alcuni Stati etnici. Senza tener conto che la costituzione birmana garantisce l’impunibilità dei responsabili militari o politici di tali violenze.
Così la violenza sessuale e gli stupri sono un’arma di guerra. Il recente rapporto del governo inglese sulla prevenzione della violenza sessuale nelle situazioni di conflitto e post conflitto sottolinea come questa forma di violenza crei divisioni e tensioni etniche, religiose, familiari, di intere comunità che durano nel tempo.
Drammatici racconti, simili per violenza e ampiezza arrivano dalle denunce delle donne di paesi molto lontani uno dall’altro. Repubblica Democratica del Congo, Corea del Nord, Cile, Iran, Siria, Sri Lanka, Libia …

La violenza sessuale nei conflitti e nelle situazioni di post conflitto rappresenta non solo una violenza in se ma anche una minaccia ai processi di pace. questi atti di violenza vanno riconosciuti, puniti anche sul piano penale, con campagne di lotta contro l’impunità e di sostegno psicosociale nei confronti delle vittime. Ma soprattutto c’è bisogno di regole e procedure internazionali per indagare e perseguire i responsabili di tali violenze. Basti solo pensare che se 125 paesi hanno leggi che condannano la violenza domestica, ancora oltre 603 milioni di donne vivono in paesi dove questo tipo di violenza non è considerato un crimine. Secondo l’ONU questo tipo di violenza, non solo è una violazione profonda di uno dei diritti umani fondamentali, ma è anche una minaccia allo sviluppo e ha “enormi costi sociali, economici e di produttività per gli individui, le famiglie, le comunità e le società” e “costa ai paesi miliardi di dollari ogni anno in cure sanitarie aggiuntive e in minor produttività”.

Il governo inglese ha deciso di fare di questi punti una priorità per la prossima presidenza del G8. Staremo a vedere e soprattutto vorremmo che ci fosse un impegno concreto coerente da parte dei singoli governi e dell’ONU.
E poi la violenza nel lavoro. Una violenza spesso subdola, consumata per ricattare le donne, per impaurirle e renderle docili. una violenza che oltre a pavesarsi con le molestie sessuali, si realizza in molti paesi poveri con il traffico di donne e bambine, , mascherato con la promessa di un posto di lavoro in un altro paese. Il traffico di esseri umani è un problema crescente che coinvolge lo sfruttamento sessuale e lavorativo delle vittime. Un fenomeno che riguarda la maggior parte dei paesi e che riguarda prevalentemente donne e ragazze in quanto soggetti più poveri. Ragazze costrette a partire con il sogno di trovare lavoro e che invece finiscono nei bordelli thailandesi o sulle strade della prostituzione europea. E poi la violenza delle lavoratrici senza diritti. Un fenomeno amplissimo che coinvolge milioni di lavoratrici, sempre più spesso precarie e vittime di ricatti anche sessuali sul posto di lavoro. Donne costrette ad trasferirsi in paesi in cui i migranti non godono di alcun diritto e dove diventano proprietà del datore di lavoro. Lavoratrici domestiche, spesso minorenni, emigrate per trovare lavoro sono spesso vittime, di lavoro forzato o violenze di vario tipo compreso gli abusi sessuali o l’omicidio da parte dei loro datori di lavoro. Sono oltre 100 milioni in tutto il mondo i lavoratori domestici e l’83% sono donne, spesso giovanissime, la stramaggioranza delle quali senza alcuna tutela legislativa o contrattuale. E la responsabilità principale sta nelle agenzie per l’impiego private che forniscono le lavoratrici domestiche da paesi come le Filippine, Sri Lanka, Birmania, Indonesia, Kenia. Paesi che oggi stanno adottando misure per evitare quello che è successo ad oltre 300lavoratrici domestiche indonesiane tra i 14 e i 16 anni che hanno chiesto rifugio presso l’ ambasciata indonesiana in Giordania in quanto vittime di abusi sul lavoro.
Donne e ragazze che lavorano per salari di fame nelle zone industriali per l’esportazione, che proprio per questi motivi stanno crescendo come funghi. Donne che non si permettono di avere figli per paura di perdere il posto di lavoro. E ancora donne sindacaliste, che pagano con la repressione e l’arresto le denunce contro le violenze nei luoghi di lavoro come nel caso delle 9 donne attiviste del sindacato turco KESK, che hanno trascorso quasi un anno in carcere per aver difeso i diritti delle donne, in un paese dove la violenza di genere, è la principale causa di morte delle donne trai 15 e i 44 anni e dove i crimini sessuali sono aumentati negli ultimi dieci anni del 400%. In quel paese vengono uccise 5 donne al giorno per il solo fatto di essere donne, mentre il 42% delle donne è stata vittima di violenza fisica o sessuale. Per non parlare del caso Colombia, dove dal 1986 al 2011, come denuncia la Confederazione Sindacale Internazionale, sono state oltre 274 le donne sindacaliste uccise, su un totale di 2.932 sindacalisti assassinati.
Questi sono solo alcuni esempi di quello che sta avvenendo da anni senza che vi sia un sussulto di coraggio da parte dei governi, senza che si approvino convenzioni internazionali vincolanti, che si denuncino chiaramente le responsabilità di governi e di imprese. Senza che si assumano condizionalità e impegni negli accordi economici bilaterali.
E’ ora di cambiare. E’ora che i governi contribuiscano con una pluralità di azioni a porre fine a questi crimini, che si pratichi la perseguibilità dei responsabili e che si attuino programmi di sostegno nei confronti delle donne, delle attiviste che, spesso in condizioni di estrema difficoltà continuano il lavoro di denuncia e di sostegno delle vittime.
E’ l’ora del Rispetto e della dignità. Ciascuno deve fare la sua parte. anche gli imprenditori, piccoli o grandi che siano. anche le imprese locali e ancor più quelle che si internazionalizzano o che hanno una catena di fornitura che devono controllare; anche i servizi pubblici e le istituzioni.
Cambiare si può e si deve.

Le donne meritano finalmente ci sia RISPETTO. Rispetto per le nostre vite, rispetto e dignità nel lavoro, nella famiglia, nella politica, nelle carriere, nelle istituzioni.

la gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti. dei governi, delle istituzioni internazionali, dei partiti. Milioni di donne sono scese in piazza migliaia di volte contro la violenza, peccato che non la si vuole vedere e tanto meno combattere seriamente.
Pur non volendo intervenire nella complessa situazione politica italiana, vorrei solo ricordare che lì dove non c’erano regole vincolanti, come nel caso delle elezioni regionali nel Lazio, la maggioranza delle candidate donne non sono elette e sono state relegate agli ultimi posti. Ancora una volta si è persa una buona occasione per voltare pagina e dare alle donne il ruolo e lo spazio che gli è dovuto.


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