Perché non voglio morire di responsabilità

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Domani dovremmo sapere se la peregrinazione di Bersani, sballonzolato da Ponzio a Pilato (come cantava un rimatore ottocentesco) alla ricerca dell’ardua maggioranza, gli permetterà di portare al Colle “numeri certi” o solo ipotesi di numeri possibili. Scrivono i notisti politici, in sintonia coi corvi di tutti i partiti, che in tal caso il presidente Napolitano incaricherebbe un “esterno”. Votato da chi? Chissà. E nemmeno si sa perché il presidente dovrebbe ripercorrere questa strada, dalla quale chi l’ha appena percorsa è uscito massacrato e certo non la rifarebbe: soprattutto il Pd, che dopo aver rinunciato in due anni a tre occasioni favorevoli per andare al voto (legge di stabilità 2010, ultimatum dell’Europa 2001, uscita dal governo Monti dopo i primi rospi necessari), ha pagato i conti per tutti: mentre Grillo raccoglieva la protesta contro i tecnici e i loro predecessori politici, e Berlusconi apriva la crisi ad orologeria e se la cavava come la salamandra nel fuoco, lanciato dai Santoro e dai procuratori del pereat mundus fiat justitia.

Noi ci rendiamo conto che anche l’eventuale “esterno” avrebbe dalla sua la necessità di riempire il vuoto che manda a picco il paese, l’Europa, le aziende coi lavoratori. Ma non potrà essere il Pd, al cui segretario molti non riconoscono quella necessità, a pagare ancora una volta “per senso di responsabilità”. Oggi in Italia di responsabilità si muore. Non siamo in Germania, dove, se al partito che governa con pochi voti mancano alcuni parlamentari in aula, ne escono altrettanti dell’opposizione. Bisogna puntare i piedi e dichiarare la nostra indisponibilità a tentativi diversi da quello affidato al capo della maggioranza relativa. Nel frattempo Monti, che per 14 mesi ha goduto delle nostre rendite, ha i poteri per governare, come ha ricordato da Berlino lo stesso presidente della repubblica. E se sarà necessario tornare alle urne subito ci torneremo, anche se non sta bene a chi s’è fatto i conti per ottobre: perché altrimenti il Pd esplode come una bomba a mano a cui sia stata tolta la sicura. E siccome il Pd è l’unico partito democratico rimasto in Italia, a parte la pattuglia tecno-clerico-automobilistica di Monti, la sua capitolazione all’eventuale governo dell’ “esterno” sarebbe la sua fine e la crisi del sistema democratico.

La nuova leadership del Pd, di cui si parla come ipotesi del dopo governo Bersani, sarà possibile solo a patto che non nasca dal sacrificio di un capro espiatorio. Essa potrebbe imporsi solo dopo una sconfitta del segretario non in parlamento ma nelle urne, preso nel fuoco del nihilismo grillista e del satrapo di Arcore: che oggi, dopo il discorso di piazza del Popolo, coi figuranti a 10 euro l’uno e i borgatari con biglietto Atac prepagato, starebbe come san Bartolomeo, scuoiato, se i giornalisti si chiamassero ancora Montanelli e Biagi. Altro che “golpe al Quirinale” coi “soli” voti della maggioranza assoluta del parlamento. Ma se si vuole (e si deve) trovare per il Colle un comune “patriottismo repubblicano” , come si dice per nobilitare il politicantismo, eguale patriottismo va speso per il governo di necessità, che Bersani sta tentando. Altrimenti, esperita a vuoto anche la via della personalità “esterna”, il nuovo presidente della repubblica dovrà tornare a Bersani, per un governo che vada in parlamento e, se battuto, porti esso stesso il paese alle elezioni. E’ la democrazia, bellezza. Funziona così, fino a quando non si trova una maggioranza. E fino a quando i moribondi di Palazzo Madama (come vennero definiti i rappresentanti subalpini, ma vale anche per i romani, vecchi e nuovi) non si decideranno a ridarci una legge elettorale da paese civile.


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