- La farsa elettorale
L’elezione con il 98% dei voti di Samia Suluhu Hassan, presidente uscente e candidata dell’unico partito di governo della Repubblica Unita di Tanzania dal 1961, il Chama Cha Mapinduzi (CCM – Partito della Rivoluzione), somiglia più a una farsa.
A poche ore dall’apertura dei seggi, il 29 ottobre, la Tanzania è precipitata nel caos. La generazione Z tanzaniana si è riversata tra le strade di Dar es Salaam, Arusha, Dodoma e Mbeya per delegittimare quella che, a loro avviso, è una democrazia solo di facciata.
Chiunque, turista o osservatore attento, avrebbe potuto notare che in ogni angolo delle città o dei villaggi troneggiava solo il volto della candidata del CCM. Degli altri candidati – formalmente sedici – nessuna traccia: né un manifesto né un volantino. Che fine ha fatto l’opposizione, nerbo del multipartitismo?
Tundu Lissu, leader del Chadema (il Partito della Democrazia e dello Sviluppo), partito di ispirazione liberal democratica, è stato arrestato ad aprile con l’accusa di tradimento. La Indipendent Nacional Electoral Commission (INEC) ha escluso anche Luhagi Mpina, candidato dell’ATC–Wazalendo, partito di sinistra.
Sussistono molti dubbi sull’effettiva indipendenza della commissione elettorale, a causa degli ampi poteri di nomina che la Costituzione attribuisce al presidente. Davanti a questi comportamenti autocratici, sia il Chadema che l’ATC-Wazalendo hanno proposto il boicottaggio delle elezioni. “No Reform, No Election” è lo slogan delle opposizioni. Ma, come capita spesso, le posizioni aventiniane rafforzano i regimi autoritari.
Sentendosi sola e delusa, la GenZ ha rovesciato il proprio malcontento nelle piazze e nelle strade, assaltando i luoghi del potere e appiccando incendi. Dura, ovviamente, la repressione della polizia. Le opposizioni dichiarano la morte di settecento persone. Il governo, nel frattempo, ha istituito il coprifuoco e interrotto internet.
Intanto, il CCM festeggia una vittoria scontata sullo sfondo di una Tanzania che brucia, soffre e protesta.
2 – I due volti di Samia Suluhu Hassan
Nel 2021 Samia Suluhu Hassan, allora vice-presidente, subentra al deceduto presidente John Magufuli. Come dispone la costituzione, in caso di decesso del presidente, tocca al suo vice terminare il mandato.
Hassan si presenta come un punto di rottura con la politica autoritaria del suo predecessore. La neo-presidente ad interim, nativa di Zanzibar, propone un progetto di governo incentrato sulle cosiddette 4R (Riconciliazione, Resilienza, Riforme e Ricostruzione).
Gli IFI (istituti finanziari internazionali) lodano la crescita economica esponenziale della Tanzania e la stampa internazionale riconosce ad Hassan l’appellativo di “Mama”. Ma la luna di miele tra il CCM e i partiti di opposizione, che avevano sperato nelle riforme politiche promesse da Hassan, dura pochissimo. Lentamente la Tanzania continua a precipitare nel gorgo dell’autoritarismo.
Il report annuale della Freedom House – ONG che studia e osserva il rispetto dei diritti civili e della rule of law nei diversi paesi del mondo – considera la Tanzania uno Stato not free, assegnandole un punteggio di 35/100. Processi arbitrari, sequestri di giornalisti e di oppositori politici si aggiungono alla discriminazione etnica nei confronti della popolazione Masai. Pochi giorni prima delle elezioni, l’ex ambasciatore a Cuba, Humprhey Polepole, membro del CCM ma ultimamente molto critico verso la politica autoritaria di “Mama Samia”, è sparito misteriosamente e, ad oggi, non se ne hanno ancora notizie.
Dunque, la politica muscolare legata alla corruzione endemica, pronta ad oleare gli ingranaggi clientelari, ha continuato a caratterizzare l’azione del governo della presidente Hassan.
È come se in pochi anni, la presidente Hassan abbia dismesso i panni della madre benevola per assumere l’uniforme della rigida autocrate. Trasformazione completata dopo i fatti degli ultimi giorni. Del resto, le accese proteste e il timore di perdere il controllo dello Stato con una sconfitta elettorale manifestano la fragilità interna di quello che, dall’esterno, appare come un paese stabile, in crescita e meta preferita dai turisti. Un piccolo paradiso che sta andando in frantumi.
3 – Il paradiso non esiste
Sono stato in Tanzania alcuni giorni prima delle elezioni e ho avuto la fortuna di girarne una buona fetta, viaggiando in auto, in autobus o in treno tra nord e sud, visitando città e zone rurali. Non posso negare di essere stato rapito dai paesaggi mozzafiato, dai tramonti che calano sulla savana e dalle albe che sorgono sull’Oceano Indiano. Ho potuto gustare una diversa scansione del tempo, lontana dai ritmi frenetici che viviamo in un’Europa al collasso esistenziale, divorata dal mito della meritocrazia e della produzione. Ma l’Africa non è il mondo dell’esotico. No, è qualcosa di più reale del paradiso. È il paradiso disincantato.
Camminando tra i villaggi e i mercati, nelle parole dei giovani tanzaniani serpeggiava la febbrile attesa del momento del riscatto. Le proteste covavano da tempo sotto la cenere del rancore e del malcontento. “One day” era il mantra che sussurravano i giovani.
Le generazioni Z tanzaniana, come quella camerunense, malgascia e ivoriana (per citare le ultime in ordine di tempo che hanno manifestato con rabbia e violenza contro brogli elettorali) sono stanche di vivere in democrazie autoritarie e di pagare il prezzo altissimo di una stabilità che, pur piacendo ai governi del Global North, favorisce gli interessi di piccole élites locali.
Gli strabilianti dati macroeconomici celano un acuto problema di redistribuzione della ricchezza che trattiene il continente africano nelle sacche del sottosviluppo, giustificazione per usurpatori in uniforme o in cravatta, garanti di un sistema finanziario troppo spesso sordo ai bisogni degli ultimi che vivono al di là delle periferie di un Impero in stato di disgregazione.
Il grido di giustizia della GenZ tanzaniana è lo stesso del Global South. E la Tanzania non sarà l’ultimo Stato ad incendiarsi per le promesse non mantenute.
Al momento l’Africa, il continente più giovane del pianeta, è un flusso di energie in attesa di deflagrare. Cosa ci sarà dopo l’esplosione? Domanda, apparentemente senza risposta certa, ma è questa la domanda che i giovani africani, portatori di una nuova linfa, devono porsi se non vogliono essere scalzati dall’onda d’urto della loro stessa rabbia.
