Piazze piene ovunque in Italia: insegnanti, portuali, studenti, lavoratori di ogni estrazione e ceto sociale. Una giornata di lotta in piena regola, dunque, promossa dai sindacati di base e capace di coinvolgere milioni di persone. Ci sono stati anche scontri e violenze, lo sappiamo, e naturalmente li condanniamo con fermezza, come del resto abbiamo sempre fatto. Guai, tuttavia, a chi tenta di strumentalizzare gli eccessi di qualche scalmanato per mettere in discussione i valori, gli ideali e le speranze di un popolo che si è ritrovato unito sotto un’unica bandiera: quella della Palestina che oggi incarna anche il vessillo universale dei diritti umani. Il punto, ora, è come trasformare la sacrosanta protesta che monta nel Paese in proposta. Dobbiamo riscontrare, infatti, una dissonanza fra la CGIL e il suo popolo: il sindacato di Corso Italia ha indetto uno sciopero venerdì scorso, tardivamente e quasi in risposta a quello annunciato da tempo dall’USB, ma la base si è mobilitata oggi, non diciamo autonomamente ma quasi. La politica, salvo rare e lodevoli eccezioni, finora è stata assente o, comunque, troppo prudente, probabilmente spaventata dai rischi connessi a una mobilitazione che intacca il posizionamento stesso dell’Italia sullo scacchiere internazionale e il modello di sviluppo occidentale, ormai prossimo all’implosione.
C’è chi ha evocato persino i fatti tragici di Genova 2001, nei giorni del G8, quando nel nostro Paese si verificò una repressione senza precedenti e, purtroppo, con molto seguito, a dimostrazione che da allora, complici anche gli attentati dell’11 settembre dello stesso anno, nulla è stato più come prima. In effetti, il paragone non è campato in aria, specie se si considera che la Flotilla è partita da Genova, che le centinaia di tonnellate di aiuti umanitari sono stati raccolti nel capoluogo ligure, presso la sede di Music for Peace a Sampierdarena, storico quartiere operaio, e che quella sera di fine agosto a salutare la partenza della più grande iniziativa umanitaria che si ricordi da decenni c’era una folla che non si vedeva, per l’appunto, da quei lontani giorni di ventiquattro anni fa. Occhio, tuttavia, a sottovalutare la portata repressiva dell’attuale esecutivo, inebriato dal vento trumpiano che spira dall’America e desideroso di trasformare la tragedia di Charlie Kirk in una sorta di martire globale dell’estrema destra, utile per giustificare ogni forma di censura e bavaglio. Non c’è ancora un clima da G8 ma non siamo lontani. E anche l’accusa rivolta a chiunque manifesti in favore del popolo palestinese di essere un sostenitore di Hamas, oltre che grottesca, è anche infamante. In un contesto del genere, non ci sorprenderebbe se nelle prossime settimane accadesse qualcosa di eclatante, magari nelle scuole o nelle università, stante pure l’ottusità del nostro governo che, solo in Europa insieme alla Germania, si rifiuta di riconoscere lo Stato di Palestina, adducendo motivazioni ridicole.
C’è una sola speranza, insomma, ed è che le forze politiche, a cominciare dal famoso “campo progressista”, decidano non di cavalcare ma di ascoltare e far proprie le istanze di coloro che oggi hanno perso un giorno di stipendio pur di rendere evidente il proprio dissenso nei confronti del genocidio compiuto da Netanyahu e dall’esercito israeliano e, di fatto, avallato dai troppi complici che ha trovato in Occidente. Auspichiamo che PD, 5 Stelle, AVS e chiunque vorrà costruire un’alternativa credibile a un esecutivo senza limiti e senza remore, che non si ferma di fronte a niente e non si vergogna nemmeno di strumentalizzare Domenica In per fini di propaganda elettorale a una settimana dal voto nelle Marche, si renda conto che dalla questione internazionale non si possa prescindere. Meno che mai nel momento in cui una nuova generazione, abbastanza simile a quella alterglobalista che si mobilitò all’inizio del secolo per chiedere un altro mondo possibile e necessario, si è messa in cammino e non intende rintanarsi.
(Ha collaborato Roberto Bertoni)
