In questo periodo di crisi profonda dei diritti umani e di delegittimazione di qualsiasi concetto cui segua l’aggettivo “internazionale”, il principale strumento a disposizione del mondo per porre fine all’impunità, che è tra le cause principali del compimento e del proseguimento dei peggiori crimini, è a sua volta messo in discussione: la giustizia e i suoi organismi, primo tra tutti la Corte penale internazionale quella che – a differenza della Corte internazionale di giustizia, che esamina controversie tra stati – si occupa di singole persone, a prescindere da cariche attuali o precedenti.
Di cosa pensino le istituzioni italiane dell’obbligo di cooperazione con la Corte penale internazionale, il cui Statuto istitutivo venne approvato proprio a Roma nel luglio 1998, lo ha dimostrato la vicenda del ricercato libico al-Masri, talmente nota che non è il caso di soffermarcisi ulteriormente.
La pietra dello scandalo è stata però precedente: l’emissione di un mandato di cattura nei confronti del primo ministro israeliano Netanyahu per crimini di guerra e contro l’umanità commessi contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza occupata: mandato emesso insieme ad altri quattro, rispettivamente tre per la leadership politico-militare di Hamas (ineseguibili in quanto i destinatari sono stati uccisi dall’esercito israeliano) e l’ultimo per l’ex ministro della Difesa israeliano Gallant.
Da quel momento, la Corte cui era stato rivolto un plauso unanime per aver sollecitamente emesso un sacrosanto mandato di cattura nei confronti del presidente russo Putin per crimini di guerra commessi in Ucraina (ne sono stati emessi poi altri cinque, nei confronti di altrettanti alti funzionari russi) ha iniziato a essere messa in discussione: “Non è la bocca della verità”, “Se Netanyahu venisse in Italia, non potremmo fare uno scontro armato con le persone addette alla sua sicurezza per arrestarlo” e così via, fino a inviti al ricercato primo ministro israeliano a visitare l’Italia.
Questa è l’ennesima prova della doppiezza degli stati dell’Unione europea, Italia inclusa: condannare o condonare, secondo le convenienze; guardare non ai crimini commessi ma a chi li ha commessi e comportarsi di conseguenza.
In questo momento l’ex presidente delle Filippine è in un carcere della Corte penale internazionale e dovrà rispondere, in un processo che seguirà tutte le procedure di equità e a garanzia dell’imputato, di crimini contro l’umanità per aver presieduto all’uccisione di migliaia di persone, per lo più povere e marginalizzate, nel contesto della sua cosiddetta “guerra alla droga”.
La guida suprema dei talebani e il capo del potere giudiziario dell’Afghanistan sono stati raggiunti da mandati di cattura per il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere, a causa dei continui provvedimenti e della loro attuazione che negano ormai alle bambine, alle ragazze e alle donne afgane ogni diritto.
Conclusione: quando la si lascia in pace, quando si mettono da parte i doppi standard, la giustizia internazionale funziona.
