Ripensare il pacifismo di Matteotti

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«Ho avuto il Consiglio, ch’era stato quasi tranquillo, tranne un incidente violentissimo sulla guerra. Ho detto loro quel che avevo nell’animo, contro le barbarie e l’inciviltà della guerra; è stato uno scandalo-minacce d’arresto. Poi tutto è finito nel nulla». Così il 5 giugno 1916 Giacomo Matteotti raccontava alla moglie Velia Titta la seduta del Consiglio provinciale di Rovigo, ove la sua intransigente difesa della pace gli avrebbe fruttato l’accusa di nemico della patria, una denuncia, un processo, la condanna a 30 giorni di prigione. Non era certo finito nel nulla, dunque, il suo intervento, ma l’iter processuale avviato a suo carico si sarebbe scontrato con l’incrollabile determinazione di Matteotti a rivendicare libertà d’espressione per le sue idee. E, a sorpresa, il ricorso di Matteotti sarebbe stato accolto in Cassazione.

Pacifismo e diritto alla piena libertà d’espressione sono ora valori in via d’oscuramento, in un mondo che si riarma a tutte le latitudini e in un paese ove giornalisti e attivisti sono spiati e intimidazioni e querele temerarie sono pratica usuale.

Mentre la spesa per armamenti decolla, registrando nel 2024 il più forte aumento dalla fine della Guerra Fredda, pari al 9,4% in più rispetto all’anno prima (cfr. Il Sole 24 ore), mentre si evoca la necessità della difesa e della sicurezza per giustificare tale escalation, le parole di Matteotti, di cui ricorre oggi l’anniversario dell’assassinio per mano fascista, smontano l’artificio retorico del si vis pacem para bellum.

«Chiunque dei due grandi aggruppamenti – scrive nel 1915 – dovesse vincere vi sarà un popolo vinto che preparerà la rivincita di domani e quindi nuove guerre, e vi saranno vincitori che domineranno su città, su campagne di nazionalità differente, con la scusa del confine da arrotondare ecc. Noi desideriamo piuttosto che tutti e due gli avversari si esauriscano, non vincano: allora soltanto forse questa potrebbe essere l’ultima guerra, per i suoi stessi orrori, per la sua stessa inutilità. Quindi, non abbiamo scrupoli sulla coscienza. Essi servirebbero soltanto a ungere le ruote del militarismo, del nazionalismo, del clericalismo». Il suo pacifismo non fu perciò sentimentale e retorico, ma nutrito di fatti e di dati come quando, a guerra finita, nel 1919 contestò al “Corriere della Sera” di dare un quadro edulcorato del danno economico inferto dalla guerra alla ricchezza nazionale. Giornalismo d’inchiesta, il suo, documentato e ponderato, difficile da controbattere.

Riformato perché affetto da tubercolosi, richiamato per punizione ma poi relegato in Sicilia in una sorta di informale confino politico, Matteotti mostrava già al suo esordio nella politica la capacità di analisi e l’intransigenza che avrebbero fatto di lui l’oppositore più pericoloso del fascismo in ascesa.


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