Giornalismo sotto attacco in Italia

Pensieri di pace e di “disarmo culturale”

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La riflessione sul lavoro portato avanti in questi anni ci stimola ad aprire nuovi orizzonti: così abbiamo scritto per l’ultimo lunedì dello scorso maggio con l’obiettivo di costruire un itinerario che evidenzi diversi fili conduttori a partire da quello già presente della pace e della guerra, consapevoli che la guerra «non ha il volto di donna», intrecciandolo con le tappe dell’ingresso delle donne nella scena pubblica. Abbiamo indicato come guida alcuni anniversari per le diverse tappe del percorso: dopo l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo il 25 aprile 2025, il prossimo anno (2026) sarà l’ottantesimo della Repubblica e della elezione dell’Assemblea Costituente, mentre tra la fine del 2027 e l’inizio del 2028 andremo a ricordare l’ottantesimo della Costituzione della Repubblica Italiana e della sua entrata in vigore. Abbiamo dimenticato che in questo anno 2025 cade un ottantesimo tristissimo: a guerra terminata il 6 e il 9 agosto 1945, due bombe atomiche sganciate sul centro della città di Hiroshima e sulla zona industriale di Nagasaki dall’aeronautica militare statunitense: oltre trecentomila morti subito.

Ce lo hanno ricordato i venti di guerra di questi dodici giorni che hanno stravolto l’Europa e il mondo in violazione di ogni regola di diritto internazionale. Ancora morte e distruzione in Ucraina e stragi di donne e bambini a Gaza. Ce lo hanno ricordato il Presidente degli USA, “in Iran come a Hiroshima e Nagasaki” e anche la Presidente del Consiglio italiano “Se vis pacem para bellum”. Noi invece siamo profondamente persuase che questo motto appartenga ad un passato ormai remoto e che l’orizzonte su cui costruire il nostro futuro sia: Si vis pacem para pacem.

Per questi motivi vi proponiamo, nella nostra rubrica del mese di giugno, una riflessione di Luisa Ricaldone che ringraziamo per averci autorizzate a riprendere qui alcune pagine di un suo saggio più ampio e articolato intitolato: Che ne è in letteratura della «più grande rivoluzione di specie»? Il saggio è pubblicato in un volume uscito di recente con il titolo: Pagine di pace Pensieri, scritti, pratiche di donne, a cura di Daniela Finocchi e Luisa Ricaldone (Iacobelli editore 2025). Oltre alle due curatrici, hanno collaborato al volume Beate Bauman, Lorena Carbonara, Elisabetta Catamo, Adriana Chemello, Giuseppina Corrias, Valeria Gennero, Cristina Giudice, Claudiléia Lemes Dias, Natalia Marrafini, Rahma Nur, Elena Pineschi, Betina Lilián Prenz.

MGG

 

Pensieri di pace e di “disarmo culturale”

di Luisa Ricaldone

Per un “disarmo culturale”.[1] Per costruire una nuova scala di valori occorre modificare i comportamenti. E le proposte per farlo sono e sono state nel tempo numerose e tutte autorevoli: da Francesco d’Assisi a Maria Montessori e al suo meravigliarsi che non esista una scienza della pace, da María Zambrano, che ritiene l’ingresso “in uno stato di pace […] un’autentica rivoluzione” (Zambrano, in Montanari e Boch, p. 100), a numerose altre e altri. Ma non è mio compito elencarle in questo contesto, anche perché esse ci porterebbero fuori dal perimetro in cui vanno contenute le pagine presenti. Solo a un paio di riferimenti mi preme accennare: superare la tendenza a schierarci rompendo la logica duale come dice Judith Butler; educare alla pace seguendo Luce Irigaray, che propone di amare piuttosto che non nuocere. Anche se l’atteggiamento di partenza è proprio non nuocere, occorre compiere lo sforzo per attuare l’amore reciproco partendo dal “mutuo rispetto”, non puramente formale, “ma assoluto nei confronti della vita e dell’esistenza di ognuno” (Irigaray, ivi, p. 165). E mi piace intrecciare le considerazioni della filosofa e femminista belga con quelle di Hannah Arendt, quando dice che, se lasciate a se stesse, «le faccende umane possono solo seguire la legge della mortalità che è la più certa e implacabile delle leggi di una vita spesa tra la nascita e la morte», e che allora «è la facoltà dell’azione che interferisce con questa legge perché interrompe l’inesorabile corso automatico della vita quotidiana. […] Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo». Tale facoltà ci ricorda che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare» (Arendt, ivi, p. 173).

Ogni cosa muta nel tempo, anche le abitudini scellerate – scrive Dacia Maraini. Alcuni ritengono la guerra una fatalità; perché «non credere invece che, come è stata abolita la schiavitù, così la guerra può essere fermata e sostituita con la contrattazione e la diplomazia internazionale?» (Maraini 2006, p. 43). E cita Alberto Moravia, quando parla dell’opportunità di creare un nuovo tabù, cioè il divieto della guerra, «un divieto interiore che diventi tanto abituale e sacro da allontanare ‘naturalmente’ gli uomini dalla guerra» (ivi, p. 45). Una interdizione, insomma, come per l’incesto.

Educare alla pace significa cominciare dalla scuola, dai suoi programmi, dalle letture. Che dire dei poemi omerici, in particolare dell’Iliade, che sappiamo costituire una sorta di atto fondativo della cultura occidentale? A questo proposito è a L’Iliade o il poema della forza di Simone Weil che dobbiamo fare riferimento. Elaborato fra il 1936 e il 1939 e uscito nel 1941 nei Cahiers du Sud a Marsiglia, zona non allineata al governo collaborazionista di Vichy, è un testo che ogni insegnante – credo – dovrebbe tenere in conto e di cui ogni studente dovrebbe conoscere almeno nelle sue linee generali. Il vero eroe, il vero soggetto, il centro del poema è la forza, scrive Weil:

la forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. […] La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno. È questo un quadro che l’Iliade non si stanca mai di presentarci. (Weil, L’Iliade o il poema della forza, 2021, pp. 39-40)

E conclude che il potere della forza di trasformare gli uomini in cose è «duplice e si esercita su due versanti: essa pietrifica in modo diverso, ma in egual misura, le anime sia di chi la subisce, sia di chi la usa» (ivi, p. 71). La forza si esercita come dominio sulla vita e sulla morte dell’altro/altra e – questo è il punto secondo ma non certo meno importante del precedente – danneggia entrambi.

Proprio per il numero dei conflitti in corso, per il clima di violenze, soprusi, attacchi cui quotidianamente assistiamo a livello di Stati, dovremmo oggi dare particolare spazio nelle scuole a una lettura dell’Iliade che non si lasci sedurre dall’eroismo di Achille, che si esprime in atti di crudeltà e ferocia, ma che evidenzi le conseguenze rovinose e mostri l’intrinseca folle pulsione che le genera. All’antico si ritorna ogni volta che è in atto una crisi, dal momento che in quei casi si assiste al fenomeno che i sociologi definiscono “anomia”, «una mancanza di norme che genera disorientamento, incertezza, angoscia» (Cantarella, 2004). Così è stato per il pamphlet di Weil, pubblicato nel primo anno della seconda guerra mondiale e così anche è stato per un altro studio sull’Iliade, che Rachel Bespaloff pubblica nel 1943. Le tappe esistenziali dell’intellettuale bulgara, vissuta a Ginevra, Parigi e trasferitasi all’avvento del nazismo a New York, risultano sovrapponibili a quelle di Simone Weil, tranne che per il suicidio, scelto da Bespaloff nel 1949. Non certo casuale la pubblicazione dei due studi a breve distanza cronologica, segno di riflessione su una delle figure classiche che più incarnano la forza e la distruzione: Achille, appunto, con il «gioco della guerra, la gioia nel saccheggiare le città troppo ricche, la voluttà dell’ira», i «trionfi inutili», le «imprese folli» (Bespaloff, Iliade, 2012, pp. 28-29).

Oltre la guerra, raccontare la pace. Nelle pagine raccolte sotto il titolo di La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale, Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura nel 2015, conferma che sono gli uomini ad avere scritto libri sulla guerra, i quali non parlano che di uomini. Da qui l’urgenza di dare voce alle donne per provare ad uscire dalla prigionia della rappresentazione maschile della guerra. «Nessuno tranne me – scrive Aleksievič – ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte»; e aggiunge: «Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra ‘femminile’ ma quella ‘maschile’. Si adattano al canone invalso» (Aleksievič, La guerra non ha un volto di donna, 2022, p. 25). Viceversa la guerra al ‘femminile’

ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E anche parole sue. Dove non ci sono eroi e strabilianti imprese, ma semplicemente persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo. E a soffrirne non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi. (ivi, p. 26)

Rilevante è il progetto di Aleksievič di «scrivere […] una storia al femminile» (ibidem); tuttavia, anche qui, nelle numerose pagine della giornalista-scrittrice ucraino-bielorussa, si parla di guerra. Come di guerra scrivono le donne che si sono impegnate a raccontare le nefandezze, le violenze, la paura, la miseria, la fame e quant’altro attiene alle guerre; evidente il desiderio di pace cui quelle narrazioni additano, desiderio e fine che però restano sottintesi: insomma si tratta di racconti nei quali la pace è condizione opposta alla guerra. Oltre a Laudomia Bonanni e al suo romanzo La rappresaglia, per venire a tempi più prossimi a noi, penso a Il resto è silenzio di Chiara Ingrao, romanzo ambientato in Bosnia e riedito di recente, come di identica ambientazione è di Rosella Postorino Mi limitavo ad amare te.

Ma una letteratura antibellicista, una letteratura che intenda la pace non solo come una condizione opposta alla guerra, non solo come fine cui tendere nel corso dei conflitti armati, bensì la pace o, forse meglio, una pace in sé, vale a dire una letteratura che racconti come si fonda e come si mantiene la pace, quali sono le premesse e quali le modalità della sua conservazione, perché la pace non è mai data una volta per tutte, una pace, insomma – come la definì non ricordo in quale occasione Lidia Menapace – come «governo non violento dei conflitti»? La ricerca dà risultati assai scarsi, tuttavia potenti!


Come si fa

Prima mi son vergognata. Poi ero

incredula delusa. Come bocciata.

Tutta una specie ritornata indietro.

Alle bastonate. Maschi al comando ancora,

con i vecchi randelli trasformati in armate

missili carri armati corazzate,

tutta un’esibizione muscolare così evoluta –

e le teste invece rimaste indietro, alla predazione,

alla zampata feroce su qualcuno che trema.

Solo dopo è arrivata la pena. Solo dopo

sono entrata dentro un gonfio

di lacrime tenute. E il dolore

dei miei umani casi si è fuso insieme

al dolore per loro, i morti, gli scampati

i feriti lasciati lì in un fosso, i rifugiati.

E se adesso piango a volte – non so per chi

o per che cosa, tanto sono confusa.

Un dolore non grave, però, il mio,

spesso sospeso,

un dolore che non mi toglie ancora

l’appetito e posso guardare

i notiziari, continuando a mangiare,

sopportare ancora lo stridore della pubblicità

col suo falso prometterci le cose.

Come si fa a provare

un dolore vero. Come si fa

da quel dolore sentir nascere

un atto vero di pace. Come si fa

ad esser solidali fino alla radice.

Allora forse troveremmo strade

impensabili ora. Accordi fra nemici

talmente inaspettati. Soluzioni di tregua

permanente, abbracci molto attesi,

terreni condivisi, confini più sfumati.

Allora la terra intera

sarebbe nostra alleata, tutti

i pesci sotto le corazzate, gli

uccelli disturbati

dai fumi e dai boati, i tronchi

le radici che stavano aspettando

la loro primavera. I gatti per le strade

i cani, i lombrichi, le api.

Tutto sarebbe alleato con noi

dentro la pace. Ce ne verrebbe

una gioia vera, una potenza

di creazione – proprio il contrario

di questa morte dei corpi e delle cose.

Sarebbe la più grande rivoluzione della specie:

risolvere i conflitti col nostro ragionare

intelligente – in compassione.

Risolverli parlando e tacendo

donne e uomini insieme,

con ricorrenti abbracci a ricordare

ciò che più vogliamo, il nostro fine supremo.

Stare nella pace. Abitare la terra

in un respiro grato. Noi, ultimi arrivati.

(Mariangela Gualtieri2022)

Sono versi meravigliosamente incisivi, che potremmo assumere come guida del discorso. Essi ci conducono dall’origine della guerra alla sua risoluzione, al suo superamento, a respingerla per sempre. La guerra è un tornare indietro di tutta la specie umana; al comando ci sono maschi che in luogo dei randelli brandiscono missili in una esibizione del tutto muscolare: mutano gli strumenti ma non i principi, non le inclinazioni maturate in teste che sono «rimaste indietro». Un’azione primitiva, insomma, dalla quale si esce – secondo la poeta – con la solidarietà, l’abbraccio, con l’andare incontro all’altro e all’altra, con l’accordarsi con il nemico. Strade «impensabili», eppure strade che devono essere percorse; solo così noi, che siamo gli ultimi arrivati sulla terra, potremmo contare sull’alleanza con la terra, la natura, gli animali. Tema fondante di un discorso antibellicista, sviluppato, fra le altre, da Aleksievič, che nelle sue pagine estende la sofferenza e i danni prodotti dalla guerra al mondo animale e delle piante, all’ambiente, insomma, e da Suad Amiry, che in Golda ha dormito qui, si chiede: «se solo potessero raccontare la loro storia prima di morire in silenzio!» (Amiry 2013, p. 28). Se l’alleanza avvenisse, ci si troverebbe di fronte alla «più grande rivoluzione di specie». Occorrono gesti imprevisti, «impensabili», dice Gualtieri.

  1. La definizione è di Raimon Panikkar, La pace come dialogo diagonale, in Moreno Montanari e Sara Oliva Boch (a cura di), Verrà la pace e avrà i tuoi occhi. Piccolo vademecum per la pace, AnimaMundi, Otranto (Le), 2022, pp. 145-147, p. 145. Gran parte delle citazioni è tratta da questo volume.

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