Il Paese dove gli uomini uccidono le donne

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Lo sappiamo già tutte. Ogni volta che ci arriva la notizia di una ragazza scomparsa, di una moglie che non dà più notizie, di una figlia forse scappata di casa, di una madre che non è tornata la sera. Lo sappiamo prima ancora di avere ulteriori informazioni, prima ancora che venga fermato un marito, un amico, un ex; prima ancora che sia ritrovato un povero corpo preso a coltellate, a sassate, a martellate, a calci e pugni, fatto a pezzi in una valigia o lasciato rotolare in un dirupo.

Il femminicidio è ormai una tale piaga sociale che non solo sappiamo già che un’altra donna morirà presto ma sappiamo già anche cosa se ne dirà dopo. Possiamo prevedere quale maître à penser di turno verrà a farci la sessione terapeutica e quale criminologo ci spiegherà le minuzie della scena del crimine, chi dirà quale sciocchezza, chi quale banalità, a ognuno la sua parte in scena, sempre la stessa, in una macabra cronaca di una morte annunciata.

Persino il lasso di tempo tra l’ennesimo femminicidio e il primo commento a dir poco sgradevole di qualche leone da tastiera, senza comprendere che proprio in quella corsa con cui maschi di ogni età si affrettano a precisare che “non tutti gli uomini”, c’è la prova della gravità del problema.

Inutile qui ribadire i numeri, ricostruire i casi di cronaca, ripetere che il femminicidio esiste e si manifesta anche in diciture come “la mia donna”. È da tempo che la verità non conta, che la realtà ha smesso di esistere, che malafede, ignoranza e cinismo hanno trionfato. Non basterà nessuna banca dati istituzionale – che non esiste e che invece dovrebbe esistere – a convincere i maschi di questa epoca e di questo mondo: basti pensare che su Internet il lutto non esiste, il cordoglio neanche, alle uccise non è concesso di riposare in pace né in eterno, ai vivi di approfittare almeno di quelle occasioni per dimostrarsi degni di vivere.

Era il 25 novembre del 2017 quando a Venezia fu tenuto a battesimo il Manifesto per il rispetto e la parità di genere nell’informazione promosso dalle commissioni Pari Opportunità della FNSI e Usigrai ed elaborato da Giulia giornaliste, eppure a distanza di quasi dieci anni ancora si fatica a raccontare la violenza di genere in maniera deontologicamente corretta sui media. Una violenza sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, endemica. Per narrarla occorre uno sforzo titanico: porsi al di fuori di stereotipi e pregiudizi, il primo passo verso la parità.

E allora eccolo il focus della questione: il femminicidio è l’espressione più eclatante di un retaggio patriarcale che teorizza la subordinazione di un genere all’ altro e quindi mette in pratica la predominanza di uno sull’altra, non solo perpetrando dettami sociali che creano un dislivello di potenzialità (e quindi di potere) tra i generi ma anche e soprattutto consentendo agiti coercitivi e violenti pur di non permetterne il rovesciamento.

Una piaga sociale e culturale che non si risolverà con i proclami securitari, gli inasprimenti delle pene, le certezze delle stesse, i pugni duri e le voci grosse, nonostante sia questa ormai la vulgata della dilagante destra che è questo Paese: la pena arriva sempre dopo, quindi troppo tardi, che tutti gli assassini vengano sbattuti in galera conterà poco quando tutte le donne saranno state uccise lo stesso.

Oggi se capitano in una relazione tossica il massimo che possono sperare è che il loro assassino si trovi un avvocato incapace o un giudice particolarmente severo, o magari che vi sia una farmacia o una chiesa nelle vicinanze in cui barricarsi, come suggerito dal ministro Nordio. E proprio nelle Aule di Giustizia si perpetrano stereotipi e pregiudizi, come plasticamente spiega la giudice Paola Di Nicola nel suo saggio “La mia parola contro la sua” in cui racconta la sua esperienza di magistrata nel luogo in cui dovrebbe regnare la verità e in cui invece troppo spesso purtroppo si realizza la cosiddetta vittimizzazione secondaria.

E poi, quanto è più confortante pensare che il problema siano solo gli uomini che uccidono le donne e non anche quelli che le odiano; eppure l’odio è più difficile da perseguire per legge, quindi meno stigmatizzato, meno dissimulato. Come nel recente caso della giovane A.S., sex worker prima sposata e poi vessata da un italiano di 60 anni che le si è scagliato contro con la ferocia del revenge porn, quella frontiera dell’odio che non uccide fisicamente ma stermina l’anima. “Indubbio che l’aula di giustizia sia una cassa di risonanza dei pregiudizi insiti nella nostra società. L’operazione di rovesciamento dei paradigmi patriarcali è attuabile soltanto da una magistratura e da Forze dell’Ordine adeguatamente e socialmente formati. Di qui l’esigenza di una formazione specialistica su violenza e discriminazione di genere per magistrati e forze dell’ordine, che consenta di stare al passo con l’evoluzione delle dinamiche di reato, per alcuni aspetti diverse da quelle del decennio scorso e, purtroppo, molto più frequenti” afferma il suo legale, Valerio Lombardi. Perché di uomini che hanno voglia di mettersi realmente in discussione, senza auto-assolversi in quel rimosso collettivo maschile che spesso fa dire loro “io mai”, ne abbiamo davvero tanto, tanto bisogno. Ed ecco che la scuola appare come lo spazio di possibilità più rivoluzionario che abbiamo, ogni giorno nella pratica. Non salva ma fa sperare: il femminicidio è figlio di una cultura, di un modello culturale e sociale, che si chiama patriarcato e non è possibile che il nostro Paese sia più spaventato dal femminismo che dal femminicidio. Forse e davvero giunta l’ora in cui con molta rabbia e determinazione questa società ricominci a scegliere da che parte mettere la colpa, che non può più essere dalla nostra parte. Per farlo però ci vuole una resistenza, una forza che si opponga a ogni forma di sopraffazione e di potere che è la radice su cui poi nasce la violenza di genere.

Di fronte a casi di femminicidio che coinvolgono ragazze e ragazzi sempre più giovani che mostrano difficoltà con la gestione delle emozioni, refrattari alla frustrazione e al fallimento, diventa sempre più centrale nel loro progetto di crescita l’insegnamento delle “cose inutili”, fra le quali la letteratura, il cui valore terapeutico dà accesso a una molteplicità di mondi, nutrendo il nostro mondo interiore: poco importa che si tratti di storie inventate o fantastiche, perché non leggere significa anche diseducare all’immaginazione. Li anestetizziamo, invece, condannandoli alla sterilità delle emozioni di uno smartphone: li vediamo scrollare storie, immagini, frasi celebri di autori depotenziate del loro autentico valore perché incapaci di contestualizzarle. Li immergiamo in un eterno presente, li illudiamo che il loro profilo social corrisponda al loro essere autentico e profondo.

La letteratura è terapeutica perché dà accesso ad una molteplicità di mondi nutrendo il nostro mondo interiore, ci abitua ad abitare la realtà, sapendo stare nel bene e sapendo stare nel male, aprendo spunti per quella educazione alle emozioni, all’affettività e al consenso che non è davvero più ammissibile ostacolare.

Penso all’ultimo romanzo di Giulia Caminito Il male che non c’è in cui la sofferenza di una generazione che sente di non avere speranze, divorata dalle angosce, senza la forza di vedere il futuro, fiaccata dalla Rete e dall’intelligenza artificiale. Penso a Diego De Silva che afferma che è proprio ne I titoli di coda di una vita insieme che scopriamo la natura mutevole dell’amore: è tra quelle pagine che raccontano il dolore di una separazione, la fine di un amore appunto, che sperimentiamo che il sentimento può finire o trasformarsi, che saper lasciare liberi di andarsene è la forma più alta di rispetto, perché l’amore si nutre di libertà. “Amore che vieni, amore che vai” cantava De André.


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