Con noncuranza verso Carte deontologiche e codici di autoregolamentazione, imperversa l’ubriacatura dei processi mediatici. Quante ore sono dedicate alla triste vicenda del delitto di Garlasco, la cui vittima Chiara Poggi non riesce a dormire in pace? Una quantità impressionante di tempo scorre attorno alla riapertura del caso, attraverso un metodo divulgativo sensazionalistico e di un cinismo disdicevole. Sul tema un’occhiata vigile andrebbe data, trattandosi di persone in carne e ossa. Non si confonda la doverosa trasparenza con il chiasso mediatico.
Qual è la proporzione tra la bulimia della cronaca nera (quella che fa il verso alla fiction) e l’attenzione al diritto di essere informati sui referendum che si terranno i prossimi 8 e 9 giugno? Impossibile calcolare la differenza di attenzione, essendo incommensurabile.
Non si vuole accedere a moralismi fuori luogo, bensì sottolineare come proprio la cronaca nera costituisca una forma di coinvolgimento emozionale del pubblico, portato per mano fuori dalle urgenze di carattere politico e sociale.
La campagna referendaria in corso rappresenta un caso che diverrà oggetto di studi e di ricerca. Un appuntamento importante, previsto dalla Costituzione come elemento connotativo del sistema democratico, è boicottato da gran parte dell’universo radiotelevisivo.
Non parliamo delle tribune canoniche, che pure non vanno neppure male (tra il 2% e il 4-4,6% di share, e i messaggi autogestiti pure meglio), bensì delle strisce informative quotidiane. Le tabelle pubblicate dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (periodo tra il 9 aprile e il 10 maggio, le più recenti disponibili) sono implacabili. La Rai: 0,62% nei telegiornali e 0,14% nelle trasmissioni extra-tg; Mediaset: rispettivamente 0,45% e 0,03%; La7: 0,75% e 0,44%; Sky: 0,82% e 0,87%; Nove: 0.
Insomma, cifre da prefisso telefonico.
Contrariamente a ciò che con leggerezza qua e là si scrive o si dice (vedi, ad esempio, la trasmissione radiofonica del mattino curata dal pur bravo Peter Gomez e da Marcello Foa dello scorso lunedì) non è vero che i regolamenti attuativi della legge 28 del 2000 – e neppure a maggior ragione la norma primaria- impedirebbero la trattazione dei referendum per eccesso di zelo impositivo. In verità, ad una lettura un po’ meno vaga, risulta evidente la differenza tra disciplina delle trasmissioni di comunicazione politica e di quelle di informazione, legate alle testate di riferimento. Se nelle prime vale il cronometro, nelle seconde le pari opportunità vanno intese nell’insieme delle puntate del periodo elettorale. Se mai, come annuncia il ricorso alla giustizia amministrativa evocato dal segretario di +Europa Riccardo Magi, il limite degli articolati è di non offrire spazi adeguati ai Comitati promotori dei quesiti e di sollecitare in maniera troppo blanda la spiegazione della natura e del senso delle domande abrogative.
La par condicio nei referendum non va intesa tanto e solo nella uguale rappresentazione dei Sì e dei No (in cui è conteggiata l’astensione), quanto nella divulgazione dei contributi e dei contesti delle decisioni da assumere nelle urne.
Si è già scritto, in questa stessa rubrica, dell’importanza di affidare ad uno specifico talk (plurale e supportato da esperti) la presentazione delle problematiche sottese ai 5 referendum. Tuttavia, non sembra esserci ancora un clima di lotta sufficiente, quasi che il non raggiungimento del quorum richiesto per la validità del voto sia un’inesorabile sorte imposta dal destino crudele.
Servono atti emblematici, capaci di sollecitare attenzione e mobilitazione cognitiva, nonché la rivolta delle coscienze.
Una proposta concreta: le forze di opposizione facenti parte della commissione parlamentare di vigilanza occupino simbolicamente (e, ovviamente, in modo pacifico) la sede della citata commissione bicamerale e -oltre ai pur utili sit in davanti alla Rai- promuovano corner e manifestazioni permanenti in città e paesi.
Si rende indispensabile un salto di qualità, una rottura dell’inerzia. Il postino non bussa in questo caso due volte.