Fuori, il terzo sciopero generale in 15 mesi contro il governo Milei ha svuotato le strade del centro storico del caos quotidiano. Nell’edificio ottocentesco della Municipalità, allacciato al Cabildo del 1810 e giust’appunto di fronte alla presidenziale Casa Rosada (spontanea simbologia dei luoghi), una folla eterogenea per età ma riunita dall’amore per l’arte rivolge l’estremo saluto a uno dei più significativi creatori argentini e americani, Luis Felipe Yuyo Noé, 91 anni, di origine italiana, appena scomparso. L’arte era anche per lui il modo d’intendere l’esistenza del genere umano, reinventandone le forme per poterla arricchire di senso. Ancor più precisamente Yuyo cercava la massima approssimazione tra il nome e la cosa. Muoveva i colori con lo scrupolo del filologo. “Vita è una parola astratta”, aveva intitolato una sua esposizione d’un paio d’anni addietro, dedicata all’idea di caos. Già presente nel lavoro che in rappresentanza dell’Argentina aveva portato nel 2009 alla Biennale di Venezia. “E’ una locuzione d’estrema attualità, dobbiamo sviscerarne le contraddizioni che contiene…”, aveva commentato.
L’ho conosciuto, qualche decennio addietro, grazie ad amici comuni, suoi vecchi compagni d’università. “Per fare l’artista ho dovuto prima fare il giornalista…”, mi disse presentandosi. Il suo primo lavoro era stato infatti alla cronaca del quotidiano El Mundo. L’ho conosciuto prima come persona che come artista, sebbene fosse già molto noto. Per la mia inadeguata attenzione all’evolversi delle diverse tendenze artistiche. Ma soprattutto perché pur ben consapevole del proprio talento, peraltro avvertito precocemente (“fin da ragazzo ho sentito che avrei fatto il pittore”) e a cui ha dedicato ogni energia intellettuale e materiale, se non sollecitato Yuyo ne parlava poco. Lasciando che fossero semmai gli altri a esprimersi, per poi eventualmente fare domande od obiezioni. Una disposizione forse appresa dall’esperienza psicanalitica fatta nella Buenos Aires oppressa dal militarismo del generale Ongania. E che l’ha portato a suscitare grande fiducia tra i giovani, ai quali si è specialmente dedicato, ritrovandosi senza proporselo riconosciuto maestro. C’erano anche Roland Barth e Antonio Gramsci nelle letture grazie a cui si orientava al momento di districarsi nel caos, nel Groviglio a cui ha dedicato una delle prime installazioni.
La condizione della donna, la frammentazione del tempo che è anche frammentazione delle individualità, la svalutazione della parola e dunque dell’espressione vitale, sono aspetti della realtà che Yuyo Noé trasfigura e fa rinascere con il vigore caleidoscopico dei suoi colori distesi dal macro al micro, su tele sempre di vastissimo respiro. “Talvolta afferrandone il senso compiuto in corso d’opera”, ha precisato lui stesso, ammettendo un’interazione tra intenzione e risultato. Da Parigi, dove per anni ha preferito andare a vivere dopo il golpe del generale Videla, nel 1976, a New York, in cui ha esposto a lungo in un paio di gallerie tra le più prestigiose, la critica ha riconosciuto alle sue opere una creatività gioiosa che si oppone a ogni distruzione, una poetica che inneggia alla difesa della fede nella vita. L’arte come verifica della historia salutis del genere umano può essere anche una misura della politica.