Marco Omizzolo è tornato in libreria, più arrabbiato e convincente che mai, con il suo nuovo libro “Il mio nome è Balbir” (Edizioni People). Ci racconta un’altra storia di sfruttamento, insieme al protagonista Balbir Singh, uno delle migliaia di braccianti sfruttati di questo Paese. Almeno sedici ore al giorno, sette giorni alla settimana, 365 giorni all’anno per sei lunghi, interminabili, anni, ad appena sessanta chilometri da Roma, Balbir ha lavorato in condizioni di schiavitù per una retribuzione che variava tra i 50 e 150 euro al mese. Per mangiare, rubava il cibo che il padrone italiano gettava alle galline e ai maiali. Quanti come lui? Tantissimi. Marco Omizzolo li ha scovati quasi uno ad uno in questi anni e quelli che non ha incontrato direttamente li ha rappresentati nelle sue denunce, nei suoi tantissimi articoli, incontri, negli altri libri. Ed è una narrazione che non finisce mai e che continua a stupire e a farci sentire peggiori di quello che vorremmo apparire. Da venti anni solleva il velo sull’altro volto dell’agricoltura dell’agro pontino e ne denuncia le storture, non senza conseguenze: vive sotto vigilanza da quasi otto anni ed è finito nel mirino di influenti politici locali oltre che di spietati imprenditori che lo consideravano un rompiscatole, uno che danneggiava l’economia e l’immagine della provincia di Latina. Omizzolo, sociologo Eurispes, presidente di Tempi Moderni, docente a contratto di Sociopolitologia delle migrazioni alla Sapienza, dipartimento di Scienze Politiche, lavora su mafie, sfruttamento, tratta internazionale, caporalato e schiavitù contemporanee. Nel 2019 è stato nominato, dal Presidente Mattarella, cavaliere della Repubblica per meriti di ricerca e impegno contro lo sfruttamento lavorativo. Con “Il mio nome è Balbir” conduce il lettore dentro la condizione degli sfruttati, a contatto diretto con l’orrore della schiavitù del ventunesimo secolo.
“Volevo che ci fosse come voce narrante quella del protagonista. – dice – Balbir non è solo l’intervistato ma è coautore, soggetto protagonista in pieno non uno che deve restare ai margini. Io credo che il percorso di liberazione dalla schiavitù non può essere fatto se anche noi non facciamo un passo indietro. Balbir stava per diventare una lapide e ora lo racconta. Balbir è arrivato con un regolare permesso di lavoro, poi per colpa di una legge vigente è stato ‘clandestinizzato’, per questo era per me ancora più importante cristallizzare questa storia”.
