Lo stato di assedio di una città è un crimine di guerra

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Cosa accadrà ora?  Siamo al  quarto giorno di guerra, con Israele che punta su Gaza per eliminare Hamas e vendicare i suoi morti e Hamas che minaccia di uccidere un ostaggio per volta come risposta a ogni attacco israeliano sulla Striscia, in perfetto stile terrorista. Scorrerà ancora molto sangue e  al momento non pare esserci un’alternativa a questa escalation di odio che viene da lontano, soprattutto se i soldati israeliani proveranno a entrare a Gaza. Niente può giustificare l’orrore a cui abbiamo assistito compiuto da Hamas, le foto dei corpi di quei 260  giovani ammassati sotto la  tenda del concerto rave sono strazianti e lo strazio aumenta se pensiamo che sono ragazzi e ragazze  trucidati da coetanei che abitavano al di là del filo spinato che separa Gaza e imprigiona i suoi abitanti. Come è potuto accadere ci si chiede ora? Stavano ballando e volevano solo divertirsi, gli altri volevano solo ucciderli. Che cosa ha potuto scatenare tutto questo a pochi chilometri di distanza, al di là  delle barriere elettrificate? Perché alcuni giovani sono diventati dei terroristi pronti a morire per la loro causa e gli altri invece avevano solo voglia di ballare e ascoltare musica con gli amici per la festa ebraica di Sukkot? E’ stato il più grave massacro di civili in #Israele, ma  mentre si piangono tutti quei morti e si pensa con angoscia al destino degli ostaggi, è obbligatorio chiedersi perché siamo arrivati a questo punto.  E’ doveroso non cadere nell’errore di guardare solo a quanto accaduto sabato con l’assalto terroristico di Hamas dimenticandosi di quello che sono stati questi decenni inconcludenti, anche per l’occidente, di una soluzione alla questione palestinese. Netanyahu,che stava normalizzando finalmente le relazioni con Arabia Saudita e Emirati,pensava che ormai i palestinesi si fossero rassegnati,ma si sbagliava.La questione di uno stato palestinese torna di grande attualità. Non si può costruire una propria  normalità, fatta di benessere e libertà, quando intorno ci sono persone che vivono segregate tra umiliazioni, sofferenze e mancanza di prospettive. Quando i propri confini sono protetti da muri e barriere elettrificate, non si è mai al sicuro. La sicurezza  si conquista non  con le armi, ma dando speranza di un futuro alle persone.  Sono 80 anni che la questione palestinese giace irrisolta sui tavoli dei governi, anche occidentali.  Dimenticata, rinviata, ridotta a un problema regionale in una sorta di indifferenza e  stanchezza generale. Eppure per chi vive in Israele, nei territori della Cisgiordania e di Gaza o nei campi profughi in Libano, la questione è sempre stata più viva che mai, anche se nelle città israeliane si è cercato di contrapporre una vita dall’ apparente normalità. Non puoi mostrare il tuo benessere e la tua libertà se attorno hai  la miseria della popolazione palestinese rinchiusa in pezzi di terra circondati da filo spinato. Basta ascoltare non solo i  media occidentali, ma anche quelli arabi e sentire i racconti di chi vive a Gaza  o in Cisgiordania per capire la rabbia che da tempo cova tra i palestinesi, totalmente dipendenti da Israele che ha il controllo dei confini dei territori e  autorizza o blocca permessi di lavoro e  il passaggio di ogni genere di necessità. Niente giustifica le azioni terroristiche di Hamas, ma la popolazione civile  non può essere privata di cibo luce acqua e benzina come ha deciso di fare  ora Israele contro Gaza, come ritorsione. Lo stato d’assedio di una città è roba medioevale ed  è catalogato come un crimine di guerra. Una nazione che si definisce l’unica democrazia del Medio Oriente non può far pagare ai civili palestinesi le colpe dei terroristi di Hamas.

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