Il canone della Rai è ai titoli di coda

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Ciò che non poterono Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri e Adriano Galliani (sì, quello candidato alle elezioni suppletive di Monza contro il bravo Marco Cappato), può -invece- l’attuale destra al governo. O, almeno, ci prova.

La Rai è sotto botta, per scelte editoriali fallimentari, per essersi privata di alcuni dei gioielli di famiglia, per una subalternità alla maggioranza che non ha precedenti. Si leggano i dati delle presenze politiche nei telegiornali di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia per averne la conferma.

Gli ascolti calano e la tendenza si unisce alla generale difficoltà della vecchia televisione generalista.

Ora, però, si mira al sodo. L’annunciato taglio di venti euro del canone (buono o brutto che sia è, comunque, è il più basso d’Europa e diminuirà percentualmente ancora) è una botta ulteriore. A Mediaset e nelle sedi degli altri concorrenti (La7 o la stella nascente la Nove) staranno brindando. Che l’ex monopolio statuale possa essere entrato sul viale tramonto rientra in una strategia perseguita sotto traccia da tanto tempo: indebolire l’azienda pubblica per favorire il mondo privato e, magari, immaginare prima o poi uno spezzatino alla Tim-Telecom.

Insomma, la trovata del ministro Giorgetti non è una svista o una semplice chiamata alle (prossime) urne con una strizzata d’occhio all’umore populista. Anche: basti leggere i quotidiani di orientamento destrorso e i loro titoli di ieri.

Si tratta, però, della ennesima sequenza di una linea che via via prende corpo.

È bene chiarire come stanno le cose. L’annunciato recupero delle risorse perdute (420 milioni di euro, già meno del taglio) avverrebbe con uno stanziamento straordinario per tre anni a carico dell’erario.

Il ministro (persona poco loquace, ma consapevole) sa benissimo che con tale iniziativa si ecciterebbero gli spiriti coercitivi di Bruxelles, che considerano gravissimi gli aiuti di Stato: una colpa indelebile. Tant’è che nel 1999, quando l’allora compagine del centrosinistra al governo si trovò a difendere in Europa dalle grinfie dell’allora commissario per la concorrenza Karel Van Miert il canone della Rai, non fu una passeggiata. La perigliosa vicenda si chiuse, perché si convenne sul fatto che l’introduzione dell’imposta era stata stabilita prima dell’avvento del Protocollo di Amsterdam (1997), volto quest’ultimo ad avviare la riforma delle istituzioni europee.

Ora quel documento è in vigore e, quindi, è ben difficile sfuggire alla disciplina continentale.

Siamo di fronte, quindi, o ad una gentile bugia o ad una leggerezza.

Tra l’altro, vi sono delle bizzarrie che contribuiscono a rendere il quadro opaco e confuso.

Nei giorni scorsi, intervenendo a Roma ad una delle sessioni del Mercato internazionale audiovisivo (MIA), il direttore generale della Rai Giampaolo Rossi aveva chiesto all’esecutivo di restituire alla sua azienda i 110 milioni del canone destinati al Fondo per il pluralismo e l’innovazione. Rossi, che si dice diverrà il prossimo anno amministratore delegato ed è considerato l’uomo forte della destra nell’apparato, sapeva ciò che stava maturando tra Presidenza del consiglio e Ministero dell’economia? Faceva scena o era ignaro? In entrambi i casi si avrebbe conferma delle intenzioni malevoli in corso d’opera.

La scelta operata dal governo presieduto da Matteo Renzi nella legge di Stabilità del 2016 -il pagamento del canone nella bolletta elettrica- rischia così di rivoltarsi contro le premesse ottimistiche.

Veniamo, infine, alla contraddizione a dir poco clamorosa insita in tale vicenda e sufficiente per uno stop.

Il balletto sull’entità delle risorse e, a maggior ragione, la quota degli investimenti extra in quale rapporto stanno con il Contratto di servizio? L’atto fondamentale volto a regolare diritti e doveri nonché i perimetri di azione del servizio pubblico non è ancora alla fine dell’iter decisionale. Su che base si tolgono risorse rispetto ad obblighi stabiliti in una fase istruttoria avanzata?

Il dubbio maligno non è infondato: forse il copione è scritto e sta in un cassetto.

Caro Giorgetti, lasci perdere: non ci metta la faccia.

Fonte: “Il Manifesto”


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