La Libia raccontata da Nancy Porsia è piena di persone che hanno un nome…

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L’uscita di un libro da non perdere come Mal di Libia, edito da Bompiani nella collana “Munizioni” diretta da Roberto Saviano, (pp.284, 18 euro) è l’occasione per riaprire numerosi filoni di discorso. Il primo è connesso direttamente al testo. Un racconto lungo, a tratti doloroso, in cui il rigore etico e professionale, come dice l’autrice “militante” dell’autrice, appare anche da quelli che sembrano particolari. La Libia raccontata da Nancy Porsia è piena di persone che hanno un nome, una storia, un volto, aspirazioni e sogni, disillusioni e sconfitte. I fixer coloro che procurano i contatti con le persone da incontrare, che possono fornire le giuste informazioni, sono spesso amici, persone con cui chi scrive e lavora condivide gli spazi, i problemi, i timori, persone che di lei si fidano. Ed è un modo di fare giornalismo che troppe volte è raro incontrare, a volte per la fretta con cui si è obbligati a lavorare, spesso perché ci si accontenta di offrire una narrazione schematica, statica, binaria e semplificante, fatta da buoni e cattivi in cui tutto diviene stereotipato.

Tante volte, il reportage da Paesi in guerra è raccontato unicamente attraverso il paradigma della geopolitica, l’occhio resta quello dell’occidentale magari anche animato da buone intenzioni ma che finisce con il riprodurre, in maniera più o meno consapevole, una visione che risente del colonialismo intrinseco in cui è ancora immersa la nostra cultura. Nancy Porsia ha fatto il salto, ha vissuto – nel senso profondo ed etimologico del termine – la Libia, le sue infinite contraddizioni e ha provato a raccontarle per quelle che sono, spogliandosi delle proprie certezze di donna di sinistra, senza perdersi o annullarsi. E il libro che ha scritto è insieme un viaggio interiore ed un processo catartico di restituzione degli anni passati in tante località del Paese, riuscendo a cogliere sfumature a cui forse siamo poco abituati. Ci costringe a rompere lo specchio di un popolo oramai pensato o come un monolite minaccioso o come una sommatoria di caratteri fra loro speculari – laico/integralista, conservatore/riformista, amico/nemico, della Tripolitania/della Cirenaica – diadi speculari e inadeguate a capire la complessità presente in ogni contesto sociale del pianeta, soprattutto nei momenti di forte crisi. Mal di Libia ci porta a guardare passato e presente, a passare dall’altra parte del Mediterraneo e guardare da lì gli uomini e le donne in fuga, chi combatte, chi si attiva per una prospettiva migliore, chi lucra, chi comanda e infine chi svolge il lavoro sporco per il nostro opulento continente. E anche per questo, l’impegno di Nancy Porsia ci porta a dipanare la matassa tirando il secondo filo dei discorsi aperti.

Negli anni, non da oggi, i governi italiani che si sono succeduti sono stati, non da soli, i complici e i mandanti della distruzione di un Paese e della disillusione di un popolo. Prima con la “Jamaria” del colonnello Gheddafi, poi con le forze rivoluzionarie che lo hanno abbattuto ed ancora oggi, con chi si contende il controllo della Libia. Ed anche se il lavoro della giornalista free lance è costretta a fermarsi alla fine del 2016, dopo aver pubblicato un’inchiesta sui rapporti fra la mafia dei trafficanti – quelli veri – e la cosiddetta Guardia costiera, emergono i rapporti di connivenza fra autorità italiane e criminali libici, in divisa o meno. Nancy Porsia è minacciata, deve lasciare il Paese, si ferma in Tunisia e continua a fornire notizie che vengono riprese anche nel rapporto annuale delle Nazioni Unite. E coloro che dovevano garantirne l’incolumità, era una persona che rischiava la vita, pensano sia meglio sottoporla ad intercettazioni telefoniche e ambientali per sei mesi, dal gennaio al giugno 2017. Giungiamo ad un altro dei fili a cui aggrapparsi per comprendere. A ordinare le intercettazioni è la procura di Trapani, nell’ambito di un’indagine sull’immigrazione “illegale” e il ruolo delle ong ma ben presto si comprende che a cercare di carpirle notizie è lo stesso ministero dell’Interno. La vicenda diviene pubblica nell’aprile del 2021, ad indagine chiusa. La giornalista non è indagata per alcun reato ma i brogliacci delle sue intercettazioni, sovente di conversazioni private, con le fonti delle sue inchieste, persino col suo legale, vengono acquisite, non soltanto commettendo un abuso ma mettendo a repentaglio la vita stessa delle fonti. La tesi di fondo è che le intercettazioni servivano a capire fino a che punto Nancy Porsia avesse scavato, quali informazioni riservate erano in suo possesso, come il suo operato metteva a rischio le relazioni criminose fra due governi. Non è stata la sola giornalista intercettata, Nello Scavo di Avvenire ha subito lo stesso trattamento ma da free lance, da persona non garantita da alcuna testata e non gradita, in quanto palesemente indipendente, ha subito l’isolamento, l’intimidazione di chi non aveva strumenti per difendersi che non il proprio lavoro. Venne condotta una indagine disciplinare nei confronti della procura di Trapani ma non venne ravvisato alcun illecito ed ora la giornalista si è rivolta alla Corte Europea per i Diritti Umani per invocare giustizia. Al centro del problema non c’è solo la sua vicenda ma il diritto e dovere per chi svolge questo mestiere di poterlo fare senza condizionamento alcuno. L’FNSI si è costituita ad adiuvandum presso la Corte europea, il suo presidente, Vittorio Di Trapani ha alzato la voce per mettere in guardia l’opinione pubblica dal fatto che la libertà di stampa si dimostra ancora una volta messa a rischio, spesso dagli stessi che dovrebbero garantirla. Ma l’ultimo dei fili – per ora, la matassa è molto più ingarbugliata di quanto appaia – è nello stato in cui si esercita la nostra professione in Italia. Essere come Nancy Porsia free lance, non significa affatto essere liberi. Ed è una condizione che vale per chi si reca, a proprio rischio, in zone di guerra ma anche per chi esercita il mestiere, in luoghi apparentemente meno pericolosi il proprio lavoro.

Perenne ricattabilità di editori e direttori, poco tempo per svolgere inchieste spesso sottopagate, richiesta, a volte esplicitata, di non attaccare i potenti di turno, di non risultare troppo sgradevoli o discordanti dalla narrazione dominante. Quello che ci ostiniamo a chiamare “quarto potere” è forse quello più preso di mira da provvedimenti bavaglio, gerarchie e catene di comando immodificabili a cui rispondere. E in una simile condizione chi scrive o realizza un servizio, sapendo che sarà retribuito solo se questo corrisponde alle esigenze di chi lo acquista e viene quindi pubblicato, spesso dopo mesi, viene da sé che la libertà di molti professionisti è altamente condizionata. C’è chi è costretto all’autocensura, chi si limita a proporre verità digeribili e chi, non rassegnandosi, non trova a volte spazio. Così non solo decade la qualità del giornalismo ma quella del diritto ad una informazione plurale. Sarebbe ora che, anche partendo da vicende come quella di Nancy Porsia, si cominciasse ad operare per una radicale riforma della professione e di una ricostruzione di un rapporto che permetta anche di garantire il diritto di comunicare anche a chi, al Potere, risulta indigesto. Si determina anche da questo la qualità di una reale democrazia.


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