Lula è presidente del Brasile ma potrà governare solo con il dialogo

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Lula, l’ex operaio metalmeccanico Luis Ignacio da Silva, è un fenomeno politico straordinario, oltre che persona di grande umanità: un leader naturale; tuttavia a fare la differenza che per la terza volta lo porta alla presidenza della più grande potenza economica del subcontinente americano, è stata la coscienza democratica della maggioranza dei 220 milioni di brasiliani, il loro timore di vedersi trascinati dall’estremismo di Bolsonaro in uno stato autoritario. In un paese giovanissimo, è questo il senso del ritorno al governo di un politico di 77 anni, protagonista di una vicenda tanto avventurosa che avrebbe appassionato Alexander Dumas, capace al momento delle grandi decisioni di sottrarsi tanto all’amore quanto all’odio che lo circondano in una società pericolosissimamente polarizzata.

Né appare sufficiente a fargli superare i tanti contrasti che ha ancora sul suo cammino, ancora in queste prime ore, la vittoria conseguita nelle urne, pur netta e indiscutibile con il suo vantaggio di quasi 2 punti percentuali (50,9% contro 49,1) e due milioni di voti circa (59 milioni contro 57), fino a prova contraria registrati dal Superiore Tribunale Elettorale. Il Presidente uscente, Jair Bolsonaro, al quale la Costituzione (in virtù di considerazioni ormai arcaiche epperò vigenti) lascia intatto l’esercizio di tutti i suoi poteri fino a fine dicembre, quando è previsto che li trasmetta formalmente al successore, non l’ha ancora riconosciuta. Dal momento della proclamazione ufficiale dei risultati che hanno sancito la sua sconfitta, nella notte della scorsa domenica, si è chiuso in un silenzio inquietante nel palazzo presidenziale, contravvenendo al comune fair-play.

Lula dev’esserne solo in parte sorpreso, al pari del brasiliano della strada. Non solo per le asprezze dell’intera campagna elettorale e di quelle al calor bianco degli scontri diretti nei confronti televisivi, in cui gli insulti hanno prevalso sulle argomentazioni. Ma soprattutto per le insistenze con cui l’ex capitano dell’esercito, che ha cooptato ben 400 ufficiali delle forze armate nel suo governo e nell’alta burocrazia dello stato, ha posto in dubbio l’affidabilità del sistema di votazione elettronico. Sebbene funzioni perfettamente da lunghi anni con generale soddisfazione e sia il medesimo che -4 anni addietro- ha certificato la sua stessa elezione a capo dello stato. La lettura che l’informazione brasiliana più autorevole fa stamane dell’atteggiamento di Bolsonaro non scioglie le diffuse perplessità. Che forse attraversano anche il cosiddetto partito militare, anch’esso ammutolito.

Palesi soci di governo, l’atteggiamento di Bolsonaro e dei militari sottolinea in cambio le enormi difficoltà che in ogni caso si presentano al nuovo presidente. A cominciare dalla prima che si troverà di fronte: la legge finanziaria per il 2023, con un Congresso in cui prevale l’opposizione, che ha conquistato anche importanti governi statuali (il Brasile è una Repubblica federale), tra cui il più industrioso e ricco, quello di San Paolo, capitale economica del paese, e Minas Gerais, che lo segue in graduatoria ed è stato una delle culle del Partido dos Trabalhadores (PT), quello fondato da Lula. Dovrà quindi mobilitare tutte le sue celebrate abilità di negoziatore, disincantato e tenace, per trovare per quanto sempre effimere le necessarie maggioranze parlamentari necessarie a far approvare i provvedimenti di legge: “un calvario”, nelle parole di Josè Dirceu, il più intimo e controverso dei suoi ex collaboratori.
E’ infatti lo scabroso e compromissorio terreno da cui a suo tempo scaturirono gli scandali corruttivi, che debilitarono la sua seconda presidenza e ancora oggi rendono inviso il PT anche a una parte non trascurabile dell’opinione pubblica progressista. C’è da credere che il governo procederà a fari accesi. Lula ha promesso di combattere l’inflazione per mezzo di accordi sul controllo dei prezzi, l’adeguamento dei salari operai al costo di vita, la stabilizzazione dei prezzi dell’energia parametrati sui costi di produzione, maggiore progressività del prelievo fiscale, garanzie per i popoli originari e la difesa dell’ambiente (Amazzonia) lasciati da Bolsonaro nelle mani della speculazione, sussidi per le fasce sociali più necessitate: tutte misure per ciascuna delle quali dovrà trovare pazientemente i voti di deputati e senatori disposti a farle diventare leggi dello stato.

Jair Bolsonaro, intanto, si può presumere che non resterà a guardare il magnifico panorama dalla sua più che ampia abitazione di Barra da Tijuca, il quartiere fronte-mare più esclusivo di Rio de Janeiro (che ha votato massicciamente per lui). Né che trascurerà il suo ufficio sacerdotale nella chiesa evangelica, che costituisce anche una base politica ed elettorale imprescindibile (sebbene a prima vista qualche suffragio si direbbe che Lula glielo abbia rosicchiato). Non è nel suo temperamento. Ha 67 anni, una bambina di 12 e tre figli maschi adulti tutti impegnati in politica e a rischio di possibili problemi giudiziari tanto penali quanto amministrativi, fin qui contenuti più o meno direttamente dall’autorità paterna. La pertinacia con cui ha prima lusingato e poi combattuto Alexandre de Moraes, presidente della Corte Suprema e massima autorità giudiziaria nazionale, dimostra il contrario.

L’avvio della presidenza Lula si trova pertanto davanti un’impervia salita. Può contare su un equilibrio regionale per lui favorevolissimo, inedito: per la prima volta nella storia, dall’Argentina al Cile, alla Colombia, al Messico, l’America Latina ha governi marcatamente progressisti, che pur con qualche contraddizione rappresentano oggi insieme al Brasile un poderoso progetto di sviluppo convergente, sebbene non necessariamente unitario. Ravvicinati dalle affinità politiche, quantomeno a livello internazionale la loro iniziativa presenta grandi possibilità di acquisire una capacità di crescita senza precedenti. Per sfruttarle pienamente, anche nei suoi riflessi interni, Lula dovrà però riuscire a superare se stesso fino a raggiungere quel minimo di riconciliazione nazionale scientemente sabotata dall’estremismo di Bolsonaro. Un ammodernamento delle società e dei sistemi produttivi latinoamericani adeguato al cambiamento d’epoca in atto, è meno credibile senza l’apporto del Brasile.

 

 


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