Diario dei giorni di Genova

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Diario dei giorni di Genova

18 – 23 luglio 2022

Per amore nei confronti della città, per rendere omaggio alla mia inchiesta sui tragici fatti del G8 del 2001 e per incontrare tante persone che sono entrate a far parte della mia vita e sono diventate, giorno dopo giorno, la mia comunità, dal 18 al 23 luglio scorso mi sono recato a Genova. La amo da sempre, figuriamoci adesso. È una città bellissima e fragile, che produce più storia di quanta riesca a consumarne, un po’ come i Balcani secondo Winston Churchill, e che ha avuto un ruolo di primo piano nella nostra vicenda nazionale, fin da quando Garibaldi salpò dallo scoglio di Quarto alla volta di Marsala, al fine di giungere finalmente all’unità d’Italia. È una città in cui nel 2001 è cambiato per sempre il corso della nostra storia. I pestaggi nelle strade e nelle piazze, l’omicidio di Carlo Giuliani, la Diaz, Bolzaneto e tutte le vicende che hanno caratterizzato quel vertice hanno contribuito attivamente alla distruzione della politica e del sistema di partiti che all’epoca ancora aveva una sua credibilità. A Genova si è agito con modalità di guerra: un conflitto non dichiarato da nessuno ma condotto senza esclusione di colpi, facendo sostanzialmente prigionieri e vessandoli e umiliando in tutti i modi possibili e immaginabili. Spiace dirlo, ma i partiti che non hanno mosso un dito per ottenere una Commissione d’inchiesta, che hanno accettato senza batter ciglio, o quasi, le verità ufficiali e che non hanno svolto un’opposizione degna di questo nome al berlusconismo nemmeno per un giorno hanno smarrito il diritto, agli occhi di milioni di cittadine e cittadini, di rappresentarli. Sono andato sulle tracce di quella storia e ne sono tornato arricchito come non mai.

Lunedì 18 luglio

La prima persona che ho voluto incontrare, a Palazzo Ducale, è stato l’amico e collega Giovanni Mari, giornalista del Secolo XIX, ventisettenne all’epoca dei fatti del G8, in prima linea in tutti questi anni nel racconto di una città complessa e meravigliosa e di processi che hanno segnato per sempre il nostro vivere civile. Lo incontro nel luogo in cui si svolse il vertice e passeggio incredulo all’ingresso di un pezzo di storia del nostro Paese. Mi guardo intorno e mi sembra di rivederli quegli otto “piccoli” grandi che decidono le sorti dell’umanità mentre all’esterno succede il finimondo. Giovanni mi indica i punti esatti in cui è passato Berlusconi, in cui sono state effettuate le foto ufficiali, in cui è andato in scena uno dei massimi soprusi cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, e io rimango in silenzio. Mi autografa il suo libro (“Genova, vent’anni dopo”) uscito l’anno scorso, dedicato al dramma che seguì in diretta in quei giorni, e riflettiamo insieme su come andrebbe raccontata questa barbarie alle nuove generazioni, sia in ambito giornalistico che a livello letterario e cinematografico.

Sempre a Palazzo Ducale, poche ore dopo, incontro l’ex sindaca, nel 2001 presidente della Provincia, Marta Vincenzi. È triste, stanca, provata ma ancora combattiva. Gliene hanno dette e fatte di tutti i colori, ha una vicenda giudiziaria tristissima alle spalle ma non ha paura. Mi colpiscono molto la sua dignità, la sua gentilezza e il suo sguardo costantemente rivolto al futuro. Non si è mai arresa e non si arrenderà mai, di questo ne sono certo.

Pietro Moschella oggi lavora presso il carcere di Marassi. All’epoca era un giovane volontario a bordo delle ambulanze che distribuivano acqua e si prendevano cura dei manifestanti. Parliamo seduti a un bar nei pressi di piazza De’ Ferrari, di fronte a un ottimo aperitivo, prima di incontrare, in serata, a cena, Alessandro Pilotto e Federico Giacobbe. Alessandro è un poliziotto sui generis, una persona splendida, un galantuomo che indossa la divisa con disciplina e onore. Oggi si occupa di cani, del reparto cinofilo; nel luglio del 2001 era in via Tolemaide ma non ha fatto del male a nessuno. Gli voglio bene per questo e perché il nostro incontro mi ha restituito un minimo di fiducia nelle forze dell’ordine. Federico, invece, oltre ad essere un autista di autobus, è un consigliere comunale del M5S, ricco di passione politica e civile, animato dallo stesso entusiasmo di allora. Il confronto con loro è stato uno dei momenti più intensi e significativi del mio viaggio.

Martedì 19

Bolzaneto è un inferno in Terra, incastonato nel cuore della Valpolcevera. Basta osservarlo un istante per rendersi conto di cosa sia avvenuto in quel mostro che oggi, all’apparenza, è una normale caserma in cui le forze dell’ordine svolgono il loro lavoro. Mi è bastato dargli un’occhiata da fuori per confermare la validità della proposta, lanciata alcuni mesi fa insieme a persone meravigliose che erano state inghiottite da quel gorgo, di trasformarlo in un centro d’accoglienza e permanenza per migranti e donne vittime di violenza. Rendere un luogo d’amore e di inclusione quello che, a suo tempo, è stato un girone dantesco: ne abbiano già parlato, ne parleremo ancora. È un dovere morale, un atto necessario per provare a rendere giustizia alle parti offese e per guardare insieme al futuro. Ma è anche un messaggio rivolto alle forze dell’ordine stesse, ai tanti ragazzi e ragazze che lavorano in quella caserma e non meritano in alcun modo di essere accomunati agli aguzzini che per tre giorni torturarono in maniera indicibile persone inermi e desiderose unicamente di battersi per un’altra idea di società e di futuro. Quell’esperienza me la porterò dietro per sempre, al pari della passeggiata pomeridiana lungo Corso Italia: uno dei luoghi in cui si verificarono gli scontri peggiori, le violenze più efferate, il teatro del pomeriggio cileno che andò in scena il 21 luglio 2001, con il corteo internazionale aggredito sia dagli agenti di Polizia che dai Black block, purtroppo lasciati indisturbati a devastare ulteriormente la città dopo i disastri che avevano combinato il giorno prima. Corso Italia davanti ai miei occhi è una distesa di sole e di caldo, un nastro d’asfalto lungo chilometri che conduce fino all’altezza di Forte San Giuliano, un altro inferno in cui venne rinchiusa una parte dei manifestanti arrestati il 20 luglio, a loro volta sottoposti a violenze indescrivibili e poi trasferiti nelle varie carceri allestite per l’occasione.

Ne ho parlato quella sera con Elisabetta Filippi, davanti a un aperitivo in piazza Lavagna, nel cuore del centro storico. Elisa, all’epoca, lavorava come volontaria insieme ai sanitari del Social Forum. La speranza è rimasta la stessa, benché attenuata, la forza d’animo pure, anche se sconfitte e delusioni l’hanno inevitabilmente segnata. Eppure, si tratta di una persona splendida, di una vera resistente di cui la società avrebbe più che mai bisogno. Lo stesso discorso vale per il dottor Roberto Settembre, colui che redasse materialmente la sentenza d’Appello del processo per i fatti di Bolzaneto. Lo incontro a cena dalle parti di Castelletto (uno dei luoghi più belli di Genova e d’Italia) e mi scorrono le lacrime. La sua passione civile è incredibile, al pari del suo impegno quotidiano. Da quando è andato in pensione, non ha mai smesso di scrivere, testimoniare, raccontare, battersi per i diritti umani e rendere – come dice lui  – giustizia agli ultimi in ogni parte del mondo, per quanto sia possibile per ciascuno e ciascuna di noi nel nostro piccolo. Essere amico di una persona così costituisce, per me, un immenso onore.

Mercoledì 20

Il 20 luglio, a Genova, non è un giorno qualsiasi, specie se ti trovi a fare colazione in piazza Matteotti con Mark Covell. Mark non ha bisogno di presentazioni: è il giornalista inglese di Indymedia che venne ridotto in fin di vita la notte dell’assalto alla Diaz e oggi è un testimone instancabile di quella vicenda e dell’importanza di avere una Polizia degna di un Paese civile. Mark è un fiume in piena, irrefrenabile nelle proposte e nei racconti, sempre a mille, come se stesse vivendo una seconda vita, felice come una Pasqua dopo aver sposato a Londra la sua Laura e pronto a tuffarsi in nuove avventure con l’entusiasmo di un bambino. Ci ritroviamo nel pomeriggio in piazza Alimonda, mentre a Roma si consuma la tragicommedia del governo Draghi, e insieme a lui ci sono altri protagonisti della mia inchiesta e delle vicende che hanno cambiato per sempre il nostro Paese. C’è la famiglia Giuliani al completo, c’è l’infermiera Monica Battifora, c’è Carlo Quartino, marito di una delle parti offese, c’è l’ex consigliere comunale Antonio Bruno, c’è il giornalista di Repubblica Marco Preve, ci sono ovviamente Mark e Laura, c’è Domenico Mungo, insegnante fieramente anarchico, c’è Paolo Fornaciari, che venne arrestato il 20 luglio, al pari di Timothy Ormezzano, e rinchiuso a Forte San Giuliano, c’è Marco Trotta e molte ragazze e ragazzi che nel 2001 erano appena nati ma oggi si battono al fianco dei lavoratori della GKN (insostituibile, in tal senso, l’impegno del mitico Alberto Zoratti) o a favore dell’ambiente, con il movimento dei Fridays for future.

E poi c’è Adarosa Di Pietro, una delle vittime della Diaz e di Bolzaneto, una donna straordinaria, presente insieme alla sua famiglia, a sua volta testimone instancabile, oggi insegnante di Scienze e persona che mi ha consentito di osservare il mondo con altri occhi. Non a caso, in serata, insieme a Mark, Laura, Ada e altre persone fantastiche, ci rechiamo al centro sociale Pinelli (a proposito, in piazza c’era anche sua figlia Claudia), dove viene trasmesso il documentario “Otto colpi”, realizzato da Danilo Monte e Timothy Ormezzano, e poi si cena tutte e tutti insieme. Non ero mai stato in un centro sociale, ma devo dire che mi è venuta una gran voglia di tornarci, specie se penso che seduto accanto a noi c’era anche l’avvocato Gilberto Pagani.

Incontrare in una giornata così significativa alcuni dei legali che scelsero, all’epoca, di stare dalla parte del torto (Laura Tartarini, Dario Rossi e il suddetto Pagani), oltre a una grande combattente come l’ex maestra Norma Bertullacelli, da ventuno anni animatrice di sit-in settimanali per la pace, mi ha trasmesso una sensazione di felicità, proprio mentre il mio cellulare si era trasformato in un luna park per via della crisi di governo in atto.

Giovedì 21

“Music for peace” è uno dei luoghi più significativi di Genova. Offre assistenza a chi non riesce più a tirare avanti, costituisce un modello di solidarietà attiva e organizza incontri come quello del 21 mattina, cui prendono parte Pagani, il sociologo Turi Palidda, Lorenzo Guadagnucci, uno dei giornalisti massacrati alla Diaz, le madri di alcuni ragazzi coinvolti in recenti scontri con le forze dell’ordine e, soprattutto, Enrico Zucca, il PM che per far luce sui fatti della Diaz ha messo in gioco se stesso e la sua carriera. Al termine dell’iniziativa, andiamo a salutarlo insieme ad Ada: lui la riconosce e la saluta con affetto. Nel pomeriggio, mi reco da solo al Palazzo di Giustizia, dove mi attendono Zucca, Francesco Cardona Albini e i due PM del Primo grado di Bolzaneto, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati. Entro verso le 16 e ci salutiamo, dopo un aperitivo, quasi alle 20. Sono quattro ore indimenticabili, un confronto tra i più intensi e significativi della mia vita, in compagnia di persone che definire meravigliose è riduttivo. Condividiamo la stessa visione della società, la stessa concezione della giustizia ma, più mai, l’idea che la forza del diritto debba prevalere sempre e comunque sul diritto della forza.

Ne parlo in serata anche con l’amico Alberto Balbi, conosciuto ai tempi della Scuola di Politiche. Ne viene fuori una bella cena, un’intensa chiacchierata politica e un giro per la città che mi conduce dalle parti di Boccadasse, il luogo della celebre Livia di Montalbano, e di Albaro, e Albaro significa Diaz. Eccola davanti a me, immensa, immersa nella notte e dunque ancora più spaventosa. La osservo e immagino le scene di quella notte di ventuno anni prima. Conosco ogni dettaglio, lo descrivo ad Alberto e rimango in silenzio, quasi raccolto in preghiera, con la Pascoli, sede di Indymedia, del Social e del Legal Forum in quei giorni, alle spalle e una sensazione di sgomento che mi assale ogni secondo di più.

Venerdì 22

Entro alla Diaz insieme a Mark e Adarosa. Senza la loro forza d’animo, il loro coraggio, la loro dolcezza e il loro senso di giustizia non ce l’avrei mai fatta.

Mark mi ha confidato di voler tornare presto per parlare a ragazze e ragazzi della sua esperienza e mi è sembrata una splendida idea. Con Ada c’era la sua famiglia, e lei raccontava ogni singolo istante con una lucidità che a me appariva sovrumana. C’è stato un momento in cui, personalmente, sono crollato ed è stato quando, con Mark, siamo saliti al quarto piano per vedere il punto del martirio di Lena e Niels. Ho aperto lo stanzino, sono entrato nel bagno, ho osservato attentamente il muro e le scale, ho immaginato il loro terrore in quegli istanti e mi sono inginocchiato, in silenzio, quasi raccolto in preghiera, mentre sul volto di Mark era visibile l’emozione e il desiderio di raccontare ogni singolo aspetto della vicenda. Ho raccontato poi, a mia volta, ai figli di Ada tutta la storia di Lena, descrivendo ciò che aveva subito grazie all’intervista che mi ha rilasciato. Stavo scoppiando ma, al tempo stesso, con loro al fianco, finalmente in pace con se stessi, avvertivo a mia volta un incredibile senso di quiete interiore.

Il vero protagonista, tuttavia, è stato il preside Alessandro Cavanna, un eroe normale di cui si parla poco o nulla in questo sventurato Paese. Ci ha accolto quasi con amore, ci ha offerto un caffè, si è fermato a parlare con noi e ci ha detto di poter girare l’intera scuola a piacimento. E se la palestra era di per sé impressionante, il primo piano è stato un colpo al cuore. Ho rivisto mentalmente tutta la scena: Anna, Mel, Daniel e tutto il gruppo dei tedeschi e delle tedesche, un qualcosa di spaventoso. Eppure, intorno a me c’era solo bellezza: un tappeto rosso in terra, piante ovunque, aule all’avanguardia, strumenti, una perfezione e una cura incredibili. Quando gli ho chiesto perché avesse reso il primo piano un simile gioiello, mi ha risposto più o meno: “Perché della scuola bisogna prendersene cura. E poi perché qui è avvenuta la barbarie e qui bisogna che studenti e studentesse sappiano ma abbiano intorno a sé un ambiente all’altezza dei loro sogni e delle loro speranze”. C’era con noi anche la direttrice dei servizi amministrativi: avrà avuto la mia età o poco più, e anche nei suoi occhi brillava una scintilla.

Un uomo che ha saputo trasformare un inferno in una magia e che ha deciso di lasciare aperta la sua scuola a chiunque la voglia visitare, al fine di creare una coscienza civile soprattutto fra i più giovani, forse a sua insaputa, sta salvando il mondo.

Poi giornata di mare, di gioia, di racconti e di speranze. E finalmente la vita mi sorride.

Sabato 23

Si riparte, ma alla stazione di Brignole un altro colpo di scena: incontro Ugo Dighero, uno degli attori che da sempre stimo maggiormente. E mi rendo conto che si tratta davvero di un segno del destino. Sì, cara Genova, ci rivediamo fra un anno. O forse prima, chissà. Comunque tornerò, perché ti amo.


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