Caso Marco Zennaro, il padre Cristiano: “Mio figlio vittima di un sequestro, l’Italia faccia di più per salvarlo”

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“Un sequestro, non può essere definito in altro modo il calvario che sta vivendo mio figlio”.
Non usa mezzi termini Cristiano Zennaro, padre di Marco, l’imprenditore veneziano arrestato in Sudan lo scorso aprile per un contenzioso economico per una partita di trasformatori contestata da due società, una sudanese e una degli Emirati Arabi. Nonostante sia stato stato prosciolto dalle accuse penali, non può lasciare il Paese perché deve affrontare il procedimento civile sulla commessa avviato dopo le denunce degli acquirenti che chiedono il risarcimento a fronte di una mancanza di conformità dell’esito fornitura che non è mai stata certificata da enti terzi, come chiesto dallo stesso Zennaro.
La società veneta finita in questa controversa vicenda progetta, produce e commercializza trasformatori in olio e in resina di distribuzione da tre generazioni ed è la più antica fabbrica di trasformatori in Italia.
“Una delle più antiche e conosciute nel mondo” rivendica con orgoglio Cristiano Zennaro che qualche anno fa ha lasciato la guida dell’azienda al figlio.

“Da oltre trent’anni forniamo direttamente e regolarmente trasformatori in olio in Sudan, sia alle società nazionali che si sono succedute nel tempo ( Nec/Sedec) sia a rivenditori locali – prosegue Zennaro  – Negli anni duemila, su richiesta del Ministero dell’elettricità sudanese è stata costruita per la compagnia elettrica Nec a Khartoum, la capitale del Sudan, in località Burhi una fabbrica di trasformatori (Transudan) con cessione di macchinari, tecnologia ed addestramento di personale. La fabbrica era interamente gestita da personale sudanese per una produzione di oltre 200 trasformatori al mese. Detta fabbrica si è subito posta in concorrenza con una società di proprietà egiziana (Sudatraf) che monopolizzava il mercato locale. Nel 2012 il Ministero dell’elettricità per questioni politiche ed economiche ha venduto la fabbrica ad una società turca la cui gestione è stata disastrosa ed oggi praticamente la produzione è azzerata”.
Finita quell’esperienza i Zennaro hanno continuato la vendita dei trasformatori direttamente al mercato locale “senza mai aver avuto problemi di alcun tipo” sottolinea Cristiano.
Arriviamo così alle vicende più recenti.
Nel 2019 la Zennarotrafo fornisce circa 400 trasformatori al suo distributore sudanese esclusivo, la Gallabi & son, e a una società di Dubai con destinazione Port Sudan.


Le specifiche tecniche Sedec prescrivono le caratteristiche dei trasformatori, una tabella di tolleranza dei parametri elettrici e indicano nel laboratorio del fornitore il luogo dove devono essere tassativamente effettuati i collaudi di accettazione alla presenza di tecnici Sedec prima di poter spedire la merce.
Come da contratto l’azienda italiana notifica ai clienti l’avviso di “merce pronta al collaudo” chiedendo l’invio di tecnici sudanesi secondo l’abituale procedura stabilita dal capitolato.
A causa della pandemia di Covid 19 è stata comunicata da parte dei committenti l’impossibilità di presenziare con i loro tecnici alla verifica ma che autorizzava comunque la spedizione.
La Zennarotrafo a quel punto provvede a inviare la merce in più lotti, allegando i certificati di collaudo delle prove eseguite nel proprio laboratorio.
Tutto sembra regolare.
Poi, a inizio marzo 2021, vengono inviate all’azienda italiana delle segnalazioni di discrepanze tra i certificati delle prove eseguite in Italia e di quelle effettuate dalllla Sudatraf, la società concorrente della Zennarotrafo nel mercato locale alla quale – contravvenendo alle procedure del capitolato – la Sedec aveva inviato una campionatura di trasformatori.
”Secondo i test effettuati dai loro tecnici i valori rilevati erano più alti delle perdite nel rame rispetto alle tolleranze previste nelle specifiche tecniche” spiega Zennaro. “Prontamente Marco il 16 marzo, in assoluta buona fede, ha preso l’aereo per Khartoum. Al suo arrivo all’hotel Corinthia gli è stato notificato un mandato di arresto e scopre che è stato avviato un caso criminale per frode da parte della società Gallabi. Gli viene così ritirato il passaporto. Resta piantonato in camera, anche la notte, e nei giorni seguenti nonostante le sue rimostranze è stato portato al laboratorio della fabbrica egiziana concorrente dove gli sono stati contestati i certificati di collaudo. A quel punto Marco ha fatto presente che le strumentazioni erano sprovviste di certificati di taratura come previsto per obbligo in sala prove prima di qualsiasi collaudo. Nonostante avesse chiesto per iscritto al general manager della Sedec la ripetizione a propria cura e costo delle prove su una campionatura di trasformatori presso un laboratorio internazionale indipendente, come è consuetudine nei casi di discrepanze di letture tra due laboratori privati, tale proposta è stata rigettata”.
Siamo a un punto cruciale della controversia.
Il ricorso ai laboratori indipendenti, peraltro previsti e indicati nelle specifiche tecniche Sedec (tra cui Asta Uk-Cesi Italy-Esef France -Kema Netherland-Pehla Germany e molti altri) poteva chiarire chi delle due parti avesse ragione.
Dunque appare incomprensibile il rifiuto del direttore generale della Sedec di un intervento terzo.
”Tutto ciò che ne è seguito è stato generato dal non aver ceduto alla richiesta da parte del capo tecnico del collaudo egiziano di essere pagato in contanti “sotto banco “, chiedendo 200000 euro per “far passare “ le prove” rivela Zennaro.
A quel punto inizia il lungo calvario del figlio.
“Alla minaccia di essere trasferito dall’albergo in prigione, Marco capisce che era in corso una truffa ai suoi danni per l’estromissione  dei suoi prodotti dal mercato locale a vantaggio del concorrente egiziano. Tutto ciò lo ha indotto, solo e terrorizzato, ad acconsentire a una transazione economica con il suo cliente Gallabi. È stato a quel punto, durante i giorni della trattativa, che è venuto a conoscenza che la società Gallabi era stata finanziata nell’acquisto dei trasformatori da un’altra società, la Hightend il cui propietario è il miliziano Abdalla Esa Yousif Ahmed, zio del noto generale Mohamed Hadman Dagalo, detto Hemeti,

capo carismatico delle milizie Rsf ed ora vicepresidente della Consiglio sovrano che guida il Sudan” sottolinea Cristiano.
La figura di Hemeti è cruciale.
Tra i leader golpisti che hanno rovesciato nel 2019 il governo dell’ex presidente e dittatore Omar Hassan al Bashir. Dagalo ha un ruolo di primissimo piano nella gestione delle risorse naturali e delle società pubbliche del Paese. Insieme allo zio gestiscono le immense ricchezze della famiglia accumulate nel corso degli anni, principalmente grazie allo sfruttamento delle miniere di oro ed altri metalli del Sudan.
Proventi utilizzati per operazioni di finanziamento e investimenti come quella con la società Gallabi, cosa di cui Zennaro era completamente all’oscuro.
“Per Marco – prosegue il padre – il miliziano Esa era e continua ad essere un perfetto sconosciuto con cui non ha mai avuto alcun contatto. Il suo rapporto esclusivo in questa vicenda è sempre stato con Gallabi. Nonostante fosse chiaro che la vittima di tutta questa vicenda fosse mio figlio, dopo cinque giorni di trattative, assistito da un legale locale presentato dall’ambasciata italiana poi rivelatosi assolutamente incompetente profittatore e pavido di fronte al miliziano, Marco con il desiderio profondo di tornare a casa il prima possibile ha sottoscritto obtortocollo due accordi: nel primo veniva previsto il versamento di € 400000 euro con il contestuale riacquisto di 120 trasformatori che dovevano essere riesportati e trasportati a Port Sudan a cura e carico di Gallabi e, una volta rientrato in italia, la Zennarotrafo avrebbe dovuto aprire una lettera di credito a favore della Società Gallabi per il riaquisto della restante merce. I 400000 euro sono stati versati in un conto della società Gallabi di cui il miliziano aveva la firma e quindi immediatamente ha girato la somma sul suo conto. Il secondo accordo prevedeva il versamento di 85000 europer spese e costi di trasporto e riesportazione. Questo pagamento è stato eseguito su un conto detenuto esclusivamente dal figlio di Gallabi. Il miliziano venuto a conoscenza solo successivamente di questa somma ne ha chiesto la restituzione ma Ayman Gallabi sì è rifiutato di farlo. La sera del 21 maggio , pur essendo un esperto nuotatore, l’uomo è stato trovato morto annegato sulle rive del Nilo azzurro nei pressi di Soba. Se Marco non fosse stato un cittadino italiano avrebbe fatto la stessa fine”.
Ma seppur salvo, da quel momentoZennaro ha subito una lunga serie di gravi conseguenze giudiziarie.
Una volta firmati i due accordi e disposto i pagamenti, la denuncia a carico dell’imprenditore era stata cancellata e gli era stato riconsegnato il passaporto.
Da cittadino italiano libero, Marco Zennaro aveva a quel punto deciso di rientrare in Italia il pomeriggio del 1° aprile.
Ormai all’aeroporto di Khartoum, pronto a prendere il volo per Dubai, e in possesso della carta di imbarco, dopo aver superato il controllo passaporti con apposizione del timbro del visto d’uscita, al momento della chiamata per l’imbarco è stato raggiunto da un sudanese che si è presentato come Hani Jafer Ajtoum, segretario del miliziano Esa.
Con l’assistenza di un addetto aeroportuale Ajtoum è riuscito a impedire all’imprenditore italiano di salire sull’aereo.
A quel punto gli é stato illegalmente cancellato il visto di uscita ed è stato portato in una stanza dell’area partenze dove è stato trattenuto fino all’arrivo in aereoporto dell’ambasciatore italiano a Khartoum Gianluigi Vassallo, del suo vice il dottor Mangiola e dell’interprete e collaboratore dell’ambasciata Roberto Viganó.
Alle ripetute richieste di chiarimenti rivolte alle autorità aeroportuali sui motivi dell’illegale fermo di Zennaro era stato risposto che erano decisioni “pervenute dall’alto via Whatsapp”.
Non era stato fornito alcun documento scritto che giustificasse il fermo.
“A quel punto appariva evidente che era in corso un vero e proprio sequestro di persona – rimarca Cristiano Zennaro – Disgraziatamente il sequestro non appariva evidente all’ambasciatore che continuava a ripetere a Marco di non preoccuparsi e che, sulla sua parola, avrebbe preso comunque l’aereo successivo per Istanbul” aggiunge sottolineando che “l’ambasciatore durante quelle successive sette ore ha sottovalutato la situazione è a costo di un incidente diplomatico, anziché trasferire d’autorità Marco nella sua ambasciata e segnalare a chi di competenza a Roma (Farnesina, Ministero della giustizia, Procura della Repubblica) come si deve in questi casi, che era in corso un sequestro di persona, è rimasto passivo ad attendere gli eventi”.
Secondo il padre dell’imprenditore, la denuncia a Roma avrebbe attivato immediatamente l’Unità di crisi prevista nei casi di sequestro di persona.
“Pur sapendo che Marco sarebbe finito in carcere, l’ambasciatore ha subito passivamente la grave illegalità per sette ore ritenendo il caso una diatriba commerciale. e come tale l’istituzione italiana erroneamente ancora la considera oggi nonostante illustri penalisti e il governatore del Veneto Luca Zaia affermino che si tratti di sequestro di persona a scopo estorsivo” l’atto di accusa di Zennaro Senior.
Alle due di notte del 2 aprile, partiti tutti i voli per l’Europa, l’imprenditore italiano viene ammanettato e portato al commissariato di Bahri dove gli notificano un mandato di arresto per “caso criminale” (n.2266 ) con l’accusa di truffa.
Da quel momento e per sessanta ininterrotti giorni, Marco Zennaro è stato oggetto di torture fisiche e psichiche. ammassato in celle con trenta persone con un solo servizio igenico, acqua non potabile razionata e costretto a dormire per terra con una temperatura di circa 45 gradi.


Per lungo tempo non gli è stata concessa neanche l’”ora d’aria“.
”Mio figlio è stato costretto a una ingiusta e disumana detenzione. Ogni giorno mi arrivavano sue richieste disperate di aiuto via whatsapp. Ho tutti i messaggi di mio figlio che documentano quanto subito, mentre l’ambasciata, secondo le procedure consolari, si limitava a visite settimanali relazionando a Roma con poche righe in cui elencava quello che era stato consegnato al detenuto”.
Intanto Venezia, la città di Zennaro, si era mobilitata con manifestazioni pacifiche per

sollecitare la Farnesina a intervenire in modo più efficace visto che la famiglia continuava a denunciare che “gli interventi dell’ambasciatore presso le autorità locali non avevano portato ad alcun esito”.
A Khartoum, nel frattempo, il nuovo legale dell’imprenditore veneto nonostante fosse stato oggetto di minacce da parte del miniziano, con coraggio è ricorso alla Procura generale per chiedere la dismissione del caso adducendo che Zennaro non aveva avuto alcun rapporto con Esa e che quindi il procedimento doveva essere ritenuto nullo.
Il 26 maggio il procuratore generale accoglie la richiesta ma dispone che l’imputato fosse ancora trattenuto in commissariato.
“Al miliziano serviva tempo per trovare il modo di congelare la decisione inappellabile del procuratore” denuncia Cristiano Zennaro.
A fine maggio arriva a Khartoum l’inviato della Farnesina per gli italiani all’estero, Luigi Vignali che resta nella capitale per due giorni. Grazie alla collaborazione dell’ambasciatore sudanese a Parigi, Omar Manis, si riesce a ottenere la liberazione dell’imprenditore.
“Il miliziano ha acconsentito al trasferimento di Marco in albergo solo grazie alla garanzia personale di un mio amico sudanese. Pensavo che finalmente dopo 60 giorni mio figlio potesse uscire dall’inferno e starsene tranquillo in albergo. Invece all’uscita dal commissariato di Bahri lo aspettavano le manette e il trasferimento al commissariato di Khartoum north (Scimal) dove gli veniva notificato un nuovo mandato di arresto per il caso criminale (n.5258) e per uno civile (n.1138) da parte della società Shiekaldien & brother, destinataria finale della merce venduta alla società di Dubai” racconta ancora il genitore affranto che da mesi è accanto al figlio in questa estenuante vicenda.
Nonostante la struttura in cui viene trasferito Zennaro sia più centrale, le condizioni delle celle appaiono da subito peggiorative rispetto al precedenti con temperature che durante il giorno raggiungevano i 50 gradi.
Per mancanza di un tetto le celle del penitenziato sono esposte 12 ore al giorno al sole.


“A sera le murature raggiungevano anche i 60 gradi, un inferno” ricorda Cristiano “La condizione fisica e psichica di Marco peggiorava ogni giorno”.
La controversia della società Shiekaldien & brother è stata formalizzata attraverso due denunce che hanno portato all’apertura di altrettanto procedimenti: uno criminale in cui dichiarava che aveva pagato ma non aveva ricevuto la merce, uno civile in cui contestava la fornitura ricevuta per mancanza di conformità alle specifiche Sedec.
Una palese incongruenza fra i due casi che un qualsiasi procuratore avrebbe risolto immediatamente con la dismissione della causa penale.
“Ci è voluta circa una settimana per la chiusura del caso criminale, dismesso il 6 luglio, mentre era rimasto in piedi il caso civile. Per far uscire Marco dal commissariato dovevamo versare come garanzia il valore della causa civile di 800000 euro nelle casse del tribunale” continua il padre.
La famiglia Zennaro dopo aver raccolto la somma, tramite l’ambasciata il 14 luglio riesce a depositarla e in quel preciso momento il giudice dichiara Marco libero.
Ma non era ancora finita.
Mentre cadeva definitivamente la causa criminale del miliziano (la n.2266), contestualmente veniva notificata un’ulteriore denuncia per un nuovo caso civile (n.1449) a nome della società Hightend, quella dello zio di Hemeti, per un valore di 975000 euro.
“Il miliziano dopo aver perso la causa penale ne aveva aperto una civile. Per fortuna per questo ultimo procedimento non è stata richiesta la detenzione ma emesso un travel ban che ha consentito a  Marco di uscire dal commissariato ma non dal paese. Il 14 giugno finalmente mio figlio è stato trasferito all’hotel Acropole. Era in condizioni fisiche e mentali disastrose” ricorda con voce rotta dall’emozione.

“Non riusciva a fare le scale dell’albergo perché aveva le ginocchia anchilosate. È crollato in un pianto disperato. Solo la sua tempra di rugbista e vogatore gli ha permesso di sopravvivere in quelle condizioni infernali” conclude con amarezza Cristiano Zennaro.
L’imprenditore veneto a quel punto era libero ma doveva restare in Sudan.
“Il 14 luglio, dismessi i due casi criminali e garantito con il deposito della garanzia da parte della famiglia quello civile, intentato dalla società Shiekaldin, Zennaro sperava che la Farnesina facesse da garante per la nuova causa civile che qualunque consulente legale del Ministero degli Esteri avrebbe dichiarato inconsistente. Cosi non è stato” evidenzia l’avvocato dell’imprenditore.
“Lo Stato italiano con grande delusione di Marco e della sua famiglia – conclude il legale – non è intervenuto continuando a ritenere il caso una diatriba commerciale”.


Da fine agosto Marco Zennaro è ospite della foresteria dell’Ambasciata italiana a Khartoum su volontà della Farnesina per le crescenti tensioni nel Paese e per timori di ulteriori colpo di coda giudiziari nei suoi confronti.
Una seconda visita di Vignali si era intanto dimostrata infruttuosa, come la lettera del ministro degli Esteri Luigi Di Maio che chiedeva la liberazione del nostro connazionale alla sua omologa sudanese, la ministra Mariam Al Mahdi.
La causa, tra rinvii e il colpo di stato in Sudan dello scorso 25 ottobre, si trascina dal 14 luglio. Ben 17 le udienze.
La prossima è fissata per il 6 gennaio, udienza in cui il Tribunale dovrebbe emettere la sentenza con la dismissione del caso per difetto di giurisdizione.
A quel punto, caduto il divieto di viaggio, i familiari di Marco Zennaro si augurano che nell’uscita dal Paese non si ripeta quanto accaduto il primo aprile.
E con loro tutta l’Italia che sta seguendo con il fiato sospeso questa assurda vicenda che inevitabilmente lascerà strascichi e segni indelebili.


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