Lettera aperta di un giovane giornalista precario: generazione di ‘sacrificati’

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“E sempre allegri bisogna stare – che il nostro piangere fa male al re”.

A leggere testimonianze come questa qui di seguito – un collega che lavora per un editore quotato in borsa – si prova una tristezza infinita. Sia per le condizioni di lavoro dei giornalisti precari in Italia, in generale; sia per lo stato comatoso di una professione che, come spiega tra le righe il collega, si deve occupare di momenti delicatissimi della vita delle persone.

Eppure… eppure la “narrazione” del mestiere che si scorge, per esempio, tra le righe di appelli di illustri firme attorno alla sedicente “salvaguardia pubblica” dell’Inpgi (leggasi: delle loro personali pensioni) sembra tutta un’altra storia. Come mai?

Queste storie di lavoro e giornalismo, di precariato a 0,003 euro a battuta, abbassati a 0,002 (sic) sono il pane quotidiano per chi, come chi scrive, ha l’onere e l’onore di rappresentare i giornalisti ultimi della fila.

Dal 2012 aspettiamo una legge sull’Equo compenso, un compenso minimo che sia esigibile in tutte le redazioni. Da ancora prima aspettiamo contratti stabili per chi, come questo collega che mi ha contattato attraverso lo sportello lavoro autonomo Fnsi, fa del racconto del reale il proprio, delicato lavoro. E’ la stampa: è un lavoro povero, precario. Che non può, e non deve, essere cancellato dal racconto della professione. Al collega, che vuole rimanere anonimo per ovvie ragioni, ribadisco quello che gli ho garantito personalmente. Non sei solo. Grazie della tua testimonianza.

Mattia Motta, segretario generale aggiunto Fnsi

Ho più di 25 anni e meno di 35 e sono un giornalista. Perlomeno, è ciò che dichiaro quando qualcuno, con innocua curiosità, mi domanda che lavoro io svolga. Sono laureato in materie umanistiche, ho alle spalle esperienze professionali importanti di varia natura, mi sono sempre cimentato in scrittura di opinione. Poco più di due anni fa, però, sono passato al giornalismo attivo, sul campo. La cronaca insomma, in ogni sua forma. Ogni settimana scrivo dai 5 ai 10 articoli per una testata locale (che fa parte di una enorme società), per raccontare la realtà ai cittadini e contribuire in prima linea al corretto funzionamento della democrazia.

Quindi sì, non posso che auto confermarmi di essere, effettivamente, un giornalista.

La verità però è che perfino io ho spesso dei dubbi. La mia professione non è assolutamente riconosciuta come tale. Per la redazione del giornale su cui scrivo io sono un semplice aiuto estemporaneo. Per lo Stato sono poco più che un fantasma.

Come migliaia di giornalisti italiani, svolgo la mia professione in una condizione contrattuale precaria e vergognosa. Quello che iniziò come un affiancamento saltuario da collaboratore esterno si è straordinariamente evoluto a livello di mansioni, ma non ha avuto nessun miglioramento a livello contrattuale. Ho in gestione la cronaca settimanale di due interi comuni da circa 7000 abitanti l’uno, ma da organigramma figuro perennemente come collaboratore esterno saltuario. Sono pagato con un contratto per diritto d’autore che fissa la mia retribuzione a 0,003 euro a battuta e 2 euro a foto. Significa che nella rara prospettiva di arrivare a circa 20.000 battute settimanali arrivo a guadagnare circa 60 euro. Al mese significa 240 euro, quando va davvero benissimo. Lordi, si intende.

Faccio il giornalista insomma per uno stipendio che oscilla tra i 150 e i 200 euro al mese, in quella che è un’assurdità che risulta difficilissimo raccontare.

Le abilità che sono chiamato a mettere in campo sono di una difficoltà innegabile. Il requisito base è risalire alle corrette fonti delle notizie per riportarle nel modo più onesto e chiaro possibile. Essenziale, dunque, la capacità di discernimento tra elementi importanti e non. Scontata la necessità, poi, di possedere abilità di scrittura per realizzare i contenuti.

Le “skills” messe in gioco per la creazione di questi contenuti, nel comune mondo del lavoro sarebbero pagate a peso d’oro.

Ogni settimana parlo, a volte per ore, con persone che rivestono titoli ufficiali: sindaci, assessori, consiglieri comunali, deputati, presidenti di enti, amministratori pubblici e privati, sindacalisti, comandanti di Polizia, agenti dei Carabinieri e moli altri. Tutti costoro mi conoscono sempre come “giornalista di” e mi vedono sotto un profilo altamente professionalizzato. Mi affidano comunicati e dichiarazioni, talvolta mi rivelano confidenze. Io seleziono e riporto tutto, utilizzo le informazioni per fornire un servizio coerente e significativo, conscio che chiunque di costoro giudicherà anche le virgole del mio lavoro, perché proprio io sono il filtro della loro credibilità agli occhi dei cittadini.

Nel caso di incidenti o eventi improvvisi, mi reco direttamente in loco a parlare con le forze dell’ordine e a scattare foto. Nel caso di lutti di rilevanza, io sono chiamato a prendere il telefono e chiamare i parenti delle vittime o andarli a trovare, presentandomi come giornalista. I figli, le madri, i padri. Spiego chi sono, e mi faccio raccontare dai parenti più prossimi chi erano i loro cari, talvolta scomparsi da pochi giorni o da poche ore.

Sorreggere queste responsabilità non è da tutti.

In tutte queste circostanze, la capacità di sostenere una relazione a seconda del contesto è fondamentale, ed è una dote che si impara sul campo.

Talvolta, capita anche di far arrabbiare qualcuno. Anche in quel caso, bisogna sfoderare le carte giuste, scusarsi e recuperare un rapporto professionale e umano. Talvolta, capita anche che qualche ente o azienda invii alla redazione qualche lettera firmata da avvocati per segnalare la citazione di informazioni che si considerano lesive, magari pronunciate da qualche soggetto e riportati da me come virgolettati. In altri termini, il mio lavoro mi porta costantemente a dei rischi legali.

È un lavoro di mediazione e di filtri, un lavoro difficile e, se si esclude l’aspetto contrattuale e retributivo, immensamente soddisfacente.

Nonostante il gruppo editoriale a capo della mia testata sia molto, molto grande, più della metà degli articoli delle testate sono scritte da collaboratori come me. Alcuni sono giovani universitari o neo laureati con molta voglia di imparare, molta pazienza e poca dimestichezza con i diritti base del mondo del lavoro. Alcuni sono pensionati con molto tempo libero e con poca voglia di rinunciare ad un hobby interessante. Alcuni sono iscritti all’albo dei giornalisti da anni e svolgono nel mentre altri mestieri. Altri non sono ancora iscritti e si trovano nei due anni “limbo di sfruttamento” necessari per poter bussare poi, stremati, alle porte dell’Ordine, inseguendo il miraggio di un accresciuto potere contrattuale all’iscrizione dell’albo dei pubblicisti.

Da questa situazione ci perdono tutti. Ci perdono gli sviliti giornalisti senza nessun diritto, ci perdono i cittadini, vittime ignare di un’informazione talvolta parziale, raffazzonata e per forza di cosa hobbistica. Ci perde la tenuta della società, che perde il collante supremo, quello dell’informazione imparziale e onesta.

Il giornalismo italiano sopravvive boccheggiando sui residui di un secolo che è finito 20 anni fa. Incredibilmente non riesce, non prova nemmeno, a creare nuove istituzioni per esistere nella contemporaneità, e non riesce a garantire i diritti acquisiti di base dei suoi soggetti o a creare strumenti per le esigenze della modernità.
Mentre il sistema crolla, le vittime sacrificali per eccellenza sono sempre gli stessi: tutti i nati dagli anni ’80 in poi.


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