Assange non verrà estradato, ma l’oro non luccica proprio

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Julian Assange non verrà estradato. Ha emesso simile verdetto, che sembrava – invece- compromesso, la giudice Vanessa Baraister del tribunale speciale di Londra. Com’è noto, il fondatore di WikiLeaks rischierebbe negli Stati uniti 175 anni di carcere, essendo accusato per numerosi reati in base ad una legge sullo spionaggio che risale al 1917.

Eppure, gli addebiti rivolti al giornalista di origine australiana hanno a che fare immediatamente con l’esercizio del diritto di cronaca: le rivelazioni terribili sulle guerre in Iraq e in Afghanistan, le relazioni pericolose tra i diversi potenti della terra, a loro volta intercettati dalla National Security Agency (NSA, sì quella dei film).

Se fu uno scandalo il coraggio di portare alla luce fatti e misfatti del mai sopito mondo imperialista, non fece un plissé il fatto che gli autori delle guerre abbiano girato in svariati paesi a tenere pubbliche conferenze, probabilmente ben remunerate.

Il primo round, dunque, sembrerebbe essere andato per il verso giusto, dopo anni di clausura forzata nell’ambasciata a Londra dell’Ecuador e malgrado gli strumentali procedimenti aperti in Svezia, risultati inconsistenti.

Luci, ma pure brutte ombre.

Infatti, il diniego dato all’estradizione non ha ridotto l’entità dei capi di accusa. Si è trattato di una scelta meramente umanitaria, dettata dalle condizioni assai precarie della salute di Assange. Una personalità ferita e umiliata, secondo varie fonti a rischio di suicidio e attraversato da pesanti problemi psichici.

Eppure, come ha ricordato Furio Colombo in una bella intervista rilasciata all’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, una condanna di merito sarebbe un precedente gravissimo, in violazione del primo emendamento della Costituzione degli States. Anzi. In un precedente omologo (ma, volendo, persino più “grave”) la Corte Suprema nel 1971 non accettò l’ingiunzione dell’allora presidente Nixon contro la pubblicazione sul New York Times e sul Washington Post dei cosiddetti Pentagon Papers,  che disvelavano i retroscena della guerra del Vietnam.

La lotta, dunque, deve continuare e non si è certamente conclusa. Se mai è necessario che si allarghi il fronte, finora troppo esiguo, che è sceso finora n campo. Grazie all’iniziativa del Comitato per la libertà di Assange, sorretto da un gruppo forse esiguo ma tenacissimo.

Grazie per il fortissimo impegno a Stafania Maurizi, giornalista puntualissima nell’informare platee magari un  po’ distratte.

La Federazione nazionale della stampa ha commentato con chiarezza le decisioni londinesi. E ora serve un ulteriore passo avanti: colpire Assange significa minare un diritto fondamentale. Il diritto dei diritti, come amava ripetere Stefano Rodotà, che permette l’esercizio anche degli altri diritti.

Ecco. La questione non è una pur nobilissima e doverosa azione per una persona, bensì per la democrazia e la divisione tra i poteri. Le tendenze autoritarie in atto esigono la progressiva cancellazione del giornalismo impegnato e di inchiesta. Meglio sudditi e ignoranti.

PS: WikiLeaks ha dimostrato che le piattaforme non sono un’esclusiva di un nuovo capitalismo. Possono diventare, se utilizzate positivamente, un formidabile strumento di conoscenza. Non esistono, insomma, solo Facebook, Amazon, Apple o Google. Piattaforme contro piattaforme. Chi avrà più filo da tessere?


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