SIMENON (quarantatreesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Resta da stabilire chi dei due amici abbia copiato l’altro. Perché non è possibile una coincidenza così precisa, e specialmente fra due artisti legati da tanta intimità.

Il grande Simenon, ha scritto in un romanzo la triste storia dell’ictus di Fellini, ma con trentuno anni di anticipo. Un enigma che mi piacerebbe sciogliere, benché non sarà facile e mi spiego.

Racconta Fellini:

“C’è stato un periodo della mia infanzia in cui, all’improvviso, visualizzavo il corrispondente cromatico dei suoni: un bue muggiva nella stalla di mia nonna? ed io vedevo un enorme tappetone bruno-rossastro che fluttuava a mezz’aria davanti a me: si avvicinava, si restringeva, diventava una striscia sottile che andava a infilarsi nel mio orecchio destro. Tre rintocchi del campanile? Ed ecco tre dischi d’argento staccarsi lassù dall’interno della campana, e raggiungere fibrillanti le mie sopracciglia, sparendo nell’interno della testa.”

Mi è capitato più volte di ascoltare dalla sua viva voce, con minime varianti, questo stesso ricordo pubblicato nel volumetto di Laterza “Intervista sul cinema” (1983). Federico riferiva che da bambino, a Gambettola, seduto al sole con la schiena appoggiata al muro della casa colonica della nonna Franzscheina, il suono delle campane lo raggiungeva solcando l’aria in forma di tanti anelli argentei e scintillanti.

Ed ora ascoltiamo Georges Simenon ne “Le campane di Biĉetre”, il cui titolo francese è però “Les anneaux – cioè gli anelli – de Biĉetre”.

“Quand’era bambino – riferisce a proposito del protagonista – gli piaceva ascoltare le campane della chiesa di Saint-Étienne e, indicando con grande serietà l’azzurro del cielo, diceva: «I nanelli…» Lui non sapeva ancora pronunciare la parola anelli e indicava così le campane per via dei cerchi concentrici che esse lanciano nello spazio.”

Questo ricordo attraversa la mente di René Maugras ricoverato d’urgenza nel reparto neurologico dell’ospedale di Biĉetre perché colpito da ictus cerebrale. Come ogni martedì stava pranzando tranquillamente con gli amici, nella saletta privata del Grand Véfour (uno dei più esclusivi ristoranti di Parigi), quando recandosi in bagno era crollato a terra privo di sensi, lungo disteso sulle maioliche del gabinetto.

René è il direttore di uno dei più diffusi giornali parigini, una personalità in vista e molto potente, alla pari degli altri convitati, medici celeberrimi, avvocati di grido, accademici di Francia. Fra loro c’è un luminare, il professor Besson d’Argoulet titolare di una clinica di rango, che però preferisce affidare l’amico alla struttura pubblica il cui primario, Audoire, è il più stimato neurologo del momento. Al personaggio viene naturalmente riservata una stanza (ce ne sono solo due, l’ospedale ospita anziani e malati di mente) e due infermiere, più una terza di rinforzo, lo assistono giorno e notte senza allontanarsi mai dal suo letto.

La notizia, seppur tenuta riservata dalla stampa, corre per la tout Paris di cui il malato è un esponente insigne. E assistiamo al lento riaffiorare alla coscienza di un uomo transitato per una frazione di secondo dalla vita alla (quasi) morte, dal potere al nulla; descritto ora dopo ora, giorno dopo giorno con una tale minuziosità di sensazioni, di dettagli clinici e di riflessioni intime, da indurci a pensare che il narratore sia passato a sua volta attraverso un’esperienza tanto atroce.

Simenon, come avviene per i personaggi delle inchieste di Maigret e per i protagonisti dei suoi innumerevoli romanzi, suggerisce spesso l’impressione di scrivere in stato di trance, in una condizione alterata, da medium. Ma qui il risultato ancora più sorprendente è che l’intero romanzo sembra anticipare nei dettagli, in un riflusso temporale, l’infortunio che sarebbe toccato a Fellini trent’anni dopo. Il suo privato calvario.

Emergono parallelismi impressionanti, come per esempio l’ospedale di Biĉetre e il Policlinico di Roma dove il regista fu ricoverato nel reparto neurologico del prof. Cesare Fieschi, tra pazienti comuni e disturbati mentali, non in una esclusiva clinica privata come ognuno si sarebbe aspettato.

Lì un famoso direttore di giornale, qui un celeberrimo cineasta, due persone privilegiate per professione, per posizione sociale, per ceto, per rapporti personali. Una vicenda speculare e simmetrica: René è paralizzato nella parte destra del corpo e reso afasico; Federico nella parte sinistra e con l’uso della parola. In comune il ricordo infantile del suono delle campane associato ad anelli argentei e luminosi.

Simenon scrive il romanzo nel 1962. Ha conosciuto Fellini due anni prima; sono diventati amici perché lo scrittore, presidente della giuria del Festival di Cannes, si è battuto inflessibilmente per assegnare il palmarès a La Dolce Vita che giudica il capolavoro di un genio. In concorso c’erano quell’anno “L’avventura”  di Michelangelo Antonioni” e “La fontana della Vergine” di Ingmar Bergman; ma spalleggiato da Henry Miller che sedeva fra i giurati, lo scrittore belga aveva sbaragliato ogni pusillanime prudenza e fazioso battibecco, al punto che sulla sua scia Luis Buñuel, il più estroso e anarchico dei cineasti, propose addirittura di fondare un “Dolce Vita club” da diffondere in tutto il mondo perché: “Federico è un genio e la sua opera un capolavoro universale”.

Il grande Sim avrebbe scritto del suo amico Federico:

«Fellini rappresenta una sincerità rara, che non fa concessioni, che è fedele a sé stessa, che è responsabile di se stessa. Fellini è solo con le sue storie, non appartiene a nessuna delle grandi correnti, non viene da nessuna scuola. E’ un autore originale, cosa rarissima, ed è un uomo ricchissimo anche di cuore, cosa altrettanto insolita.

Fellini, che ha l’onestà dei grandi artisti, non ci dà le immagini rassicuranti di cui è in genere prodigo il cinema, Fellini ama l’uomo e non l’inganna. Resta, a mio avviso, una testimonianza scomoda, e davvero inquietante, dell’uomo di oggi».

I due artisti iniziano a frequentarsi, a scriversi. Verosimilmente a scambiarsi confidenze, a scoprire affinità, e persino un’analoga visionarietà. Ma chi dei due ha raccontato all’altro delle campane e degli anelli d’argento? E’ pensabile che un fenomeno psichico così peculiare si sia verificato identico, per pura concomitanza, in due individui diversi e oggettivamente lontani tra loro; o non è piuttosto supponibile che si sia stato uno scambio di informazioni tra l’uno e l’altro?

In ogni caso il grande Sim affronta la malattia attraverso una cronaca che lascia stupefatti per la quantità di elementi in comune con la degenza di Federico. Muta soltanto il finale, che per Fellini purtroppo risultò meno fortunato.

 

Procedendo nella lettura del romanzo si incontrano, frase dopo frase, decine e decine di strabilianti somiglianze. Contrariamente al suo solito, per questa opera Simenon si affidò a una lunga e scrupolosa documentazione e lui, abitualmente rapidissimo, impiegò molto tempo a terminarla. D’altro canto nella persona di Maugras è evidente che egli tratteggia anche sé stesso (e non parlo solo delle campane e degli anelli): vengono rievocati gli inizi da giornalista di provincia, la Normandia, l’amata isola di Porquerolles nel Midi, e il Moulin Rouge di cui Georges era stato un habitué.

Ricordate le parole di quel motivetto così dolce? “J’ai deux amours/ mon pays et Paris” (Io ho due amori/ il mio paese e Parigi)? Le gorgheggiava Josephine Baker, la Venere Nera del Casino de Paris, che con il suo gonnellino di banane eccitava gli uomini fino al delirio, compreso il giovane Georges che, nel 1927. si finse suo segretario per frequentarla di nascosto dalla moglie Tigy, e giunse a scrivere di lei su La merle rose:

«E’ indubbiamente il sedere più famoso del mondo. Deve trattarsi dell’unico sedere ad essere divenuto oggetto di culto. E’ ovunque, sui giornali musicali, sulle copertine delle riviste, tappezzato sui muri dell’intera città, perché è l’unico sedere che ride

E’ soprattutto il rapporto con le donne, con l’erotismo, col sesso, che l’autore fruga in ogni piega segreta della mente intorpidita del malato. Ne ripercorre le fantasie anche nei confronti delle infermiere che lo accudiscono; la giovanissima e spigliata signorina Blanche, assai carina e quindi quanto mai idonea a favorirne la guarigione; Angèle dai modi diretti ed efficaci; e la più matura Joséfa, che passa la notte dormendo vestita su una branda pieghevole, e la cui carnalità, gli atteggiamenti innocentemente sensuali assunti nel sonno, gli stimolano una spirale di pensieri morbosi. E’ con lei che vorrebbe fare sesso una volta guarito; della giovane Blanche cercherebbe piuttosto l’amore o forse la devozione; e infatti ne è quasi geloso.

Posso assicurare che queste medesime creature, con nomi diversi, hanno volteggiato intorno a Fellini confinato in un letto, e crea una scossa di stupore accorgersi che già esistevano nella narrazione di Simenon. Presenze quasi sovrapponibili.

Mi domando se Federico, che conosceva tutte le opere dello scrittore belga, abbia letto anche questo romanzo nell’edizione francese (la prima edizione italiana risale al 1966, l’ultima presso Adelphi è del 2009). Cosa avrà pensato il regista di quelle campane e di quegli anelli? E quando subì a Rimini l’ingiuria dell’ictus, gli saranno sovvenuti Maugras e gli altri personaggi già incontrati sulla pagina? Si sarà visto raffigurato al posto del celebre direttore di giornale e nella ‘ronde’ di personaggi che gli vorticavano intorno, a iniziare dal suo medico personale Gianfranco Turchetti che sembra quasi ricalcato sul mondanissimo Pierre Besson d’Argulet? L’uno e l’altro, fin dai primi giorni, sempre accanto al paziente, fervorosi nell’anticipargli il decorso della malattia, e pretendendo di precorrere persino i suoi stati d’animo, senza minimamente sospettare l’incolmabile distanza che li separava. Medesimo anche il ritornello che gli veniva rivolto: “Perché tu guarisca abbiamo bisogno della tua collaborazione.”

Che invece non veniva accordata, né da René, né da Federico, entrambi indisciplinati e pronti ad opporre ostinate resistenze, incuranti di ogni raccomandazione che li aiutasse a tornare alla vita comune.

René sta bene come sta, in quella condizione in cui finalmente riesce a trovare un porto di quiete, uno spazio protetto in cui soggiornare, quasi immerso in una sorta di voluttà. Ripercorre alla rinfusa gli eventi della propria esistenza, gli incontri, le difficoltà, e la fortuna che l’ha sempre assistito e proiettato ai massimi vertici della società parigina, pur essendo partito senza arte né parte da Fècamp. Una famiglia di origine modestissima, un padre opaco impiegato, che contava le balle di merluzzo scaricate dai pescherecci sui moli del porto. L’adolescenza solitaria, la scoperta del sesso nei postriboli, e infine la partenza per prendere le distanze dal proprio paese, l’approdo a Parigi… Che romanzo inquietante, angoscioso e per alcuni versi liberatorio! Stupefacente nel raccontarci tramite fedeli bagliori, ambigui rimandi, la sorte estrema di Fellini visitata, sembrerebbe, da Simenon con una folgorante premonizione. La realtà che imita la fantasia.

Il mistero di due artisti, Georges e Federico, incredibilmente simili!

 

Fellini riteneva che Georges Simenon fosse il più grande degli scrittori viventi, lo esaltava in ogni nuova opera. Divorava avidamente le inchieste del commissario Maigret senza distinzione, i romanzi psicologici, e infine i dictée; possedeva tutti i libri dello scrittore belga, spesso li leggeva ancora in bozze su specifica sollecitazione dell’amico o per iniziativa dell’editore francese. Alla fine sospinse Roberto Calasso a subentrare a Mondadori nei diritti per l’edizione italiana e a mettere in catalogo l’intera opera; impresa che Adelphi continua a onorare con lodevole puntualità, ristampando tutti i titoli nelle sue prestigiose collane.

In quel gioiello intitolato Carissimo Simenon – Mon cher Fellini” troviamo il carteggio intercorso tra Federico Fellini e George Simenon, nel quale i due geni del Novecento si raccontano di tutto, e non mancano gli accenni alle figure femminili della loro vita. Capita persino che Federico confidi all’amico in data 15 ottobre 1979, mentre è già entrato in lavorazione di La città delle donne:

«In questi giorni sto girando le sequenze chiamate genericamente «le visioni»: si tratta di un viaggiare precipitoso e sospeso del protagonista che scivola in uno spiralesco toboggan, inabissandosi, risalendo e rituffandosi nell’oscurità sfolgorante della propria mitologia femminile: le vaste gambone della Rosina, la cameriera, golosamente spiate da sotto il tavolo quando ero bambino; l’opulenta moglie del dentista, gli invisibili fruscii del suo spogliarello nella penombra del capanno, prima di uscire nella luce abbagliante di una spiaggia d’agosto verso un mare fermo e irraggiungibile, in compagnia di un bellone che assomigliava a Tarzan; la composta e prorompente insegnante che dava ripetizioni di latino; la prima puttana, il suo immenso culone candido e imbronciato che salendo dondolante per le scale del casino sembrava sempre sul punto di dirci, di rivelarci qualcosa, stregandoci in questo modo per sempre; le biondissime motocicliste del «Giro della Morte», fasciate di cuoio nero, spavalde e crudeli; la pescivendola infagottata di maglie come un samurai, il viso, le braccia e le tettone madide di sudore e luccicanti come l’argentea vita palpitante nelle ceste. Le confesso, caro Simenon, che non vorrei uscire più da quella zona del film, mi piacerebbe restare qui per sempre, nel suo tepore sfavillante e sonnolento. Non capitava così anche a lei, quando scriveva i suoi romanzi, di trovarsi in certe atmosfere, situazioni, e in compagnia di certi personaggi che non avrebbe voluto abbandonare più? Ma fra una quindicina di giorni mi aspetta la sequenza finale del film: il ring, una specie di vasto anfiteatro zeppo di donne urlanti e minacciose nel quale Marcello dovrà affrontare una prova inconoscibile e paurosa. Ce la farà? Non si sa ancora bene, forse non è proprio possibile saperlo, certamente io non lo so, non ancora».

Poco prima di spegnersi Federico mi raccomandò di cercare e di leggere tre libri dell’autore belga, che aveva divorato in francese e non erano ancora stati tradotti in Italia: L’ottavo giorno, Victorine et Antoinette, Ci sono ancora dei germogli.

La consegna di un testimone da afferrare e stringere in pugno, in suo nome.


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