CARITA’ (trentottesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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La fotografia lo ritrae in un angolo di Roma mentre si curva per deporre una moneta in mano a una vecchietta che chiede l’elemosina. A guardare bene, Fellini non sta tendendo una moneta, bensì una banconota che tiene ancora fra le dita mentre la poverella porge la mano a coppa nel gesto tipico di chi chiede la carità. E’ una bella giornata estiva, lo scatto del fotografo Marcello Geppetti risale al 4 agosto 1967 e la scena di svolge in via Ludovisi, un’elegante traversa di Via Veneto. Federico, con la giacca sulla spalla, appare rilassato, evidentemente non va di fretta, e dall’espressione del viso si può dedurre che sta dicendo qualcosa, probabilmente incuriosito di apprendere qualche notizia più personale dalla creatura che ha di fronte, come si chiami, da dove provenga. Il regista con il prossimo non è mai anonimo, mai distaccato. Porge l’obolo non come un compito da sbrigare in fretta, bensì con un sentimento di solidarietà, di umana partecipazione: un atto di carità cristiana. La mendicante solleva gli occhi verso di lui, con sorpresa e gratitudine; basta soffermarsi sul suo volto per scoprire che tra i due sta passando una comunicazione privata, di simpatia, di calore. Il biglietto di cinque o diecimila lire non è di poco conto per la povera donna; Fellini poteva permetterselo, era generoso con chiunque gli si presentasse, anche con le zingare di piazza del Popolo, i diseredati, i senza tetto, i vagabondi che lo accostavano chiamandolo per nome. Su questo argomento varrà la pena soffermarsi, perché denso di implicazioni e con singolari punti di contatto con il suo amico Georges Simenon.

L’immagine fraterna di Federico che porge l’elemosina mostrando nel sembiante la semplicità di un ragazzo, colpisce e induce a una riflessione più ampia. Il gesto di fare la carità è l’unico atto residuo nella nostra società in cui il potente, fosse anche un monarca, è costretto a inchinarsi al miserabile, a guardarlo all’altezza degli occhi. Ed è l’unico momento in cui la povertà riceve questo omaggio così plateale da parte di chi gode una posizione di privilegio. Proprio perché il mendicante è umile, cioè più ‘vicino alla terra’ (come indica l’etimologia dell’aggettivo) e tende la mano da quel suo stato di inferiorità (cioè di chi sta più ‘in basso’), chiunque per esaudire la sua richiesta deve piegarsi, curvare la schiena, abbassare la testa; non può evitare di compiere questo gesto di reverenza. L’azione dell’elemosina è tra le pochissime occasioni in cui ci prostriamo ai poveri. In essa si verifica un sovvertimento delle posizioni, utile a farci capire che l’indigenza è fra tutte le condizioni umane la più sacra: “Ciò che darete al povero lo darete a me”. Qualsiasi individuo, fosse anche il papa o un re, oppure un regista di valore e di notorietà mondiale come Fellini, elargendo la carità al mendicante si inchina fatalmente. E l’immagine andrebbe riconsiderata in una prospettiva metaforica. O metafisica?

 

Quando si parla del tema della carità nell’opera di Fellini, la memoria corre a Le notti di Cabiria e alla sequenza dell’Uomo del Sacco, attorno alla quale si scatenò al tempo un caso non da poco. L’episodio era ispirato a un tale Mario Tirabassi che nottetempo girava con la sua Giardinetta nei quartieri più periferici e dimenticati della Città Eterna per recar soccorso ai diseredati: un po’ di cibo, un indumento, una maglia di lana, una medicina, una parola di conforto. L’anonimo benefattore rappresentava una manna per quei reietti, barboni, alcolizzati, vecchie prostitute, che brulicavano in una indecente corte dei miracoli fra le voragini e le grotte di tufo dell’Appia Antica, dell’Ardeatino, di Torpignattara, dell’Infernetto.

La vicenda era stata pubblicata persino sul Reader’s Digest e Fellini se ne era appassionato dopo aver conosciuto di persona il protagonista, un personaggio un po’ fiabesco, che abitava nell’ammezzato di Palazzo Wedekind a Piazza Colonna, storica sede del quotidiano Il Tempo.

Ne rimase colpito e scrisse la sequenza che poi girò ai Cessati Spiriti sull’Appia Nuova, chiamando a interpretarla il suo montatore Leo Catozzo, alto e asciutto, dall’aspetto ascetico.

Nel film la piccola prostituta Cabiria, dopo l’avventura non consumata con il divo capriccioso, si ritrova, all’alba, sperduta nella campagna romana, senza sapere come far ritorno alla sua baracca; e incontra l’uomo del sacco che acconsente a darle un passaggio una volta concluso il suo giro caritatevole. Lei lo segue e scopre incredula un sottogenere umano nei cui confronti la sua esistenza grama le appare persino invidiabile. Confusamente rimane affascinata dal filantropo, pensa di avere a che fare con un santo, un essere superiore. Come è noto il film non passò il visto di censura e fu salvato in extremis da una mezza parola sussurrata dal cardinale Giuseppe Siri, al tempo un potentissimo porporato che sembrava destinato al Soglio Pontificio. Tuttavia, perché la pellicola potesse circolare liberamente nelle sale, la commissione ministeriale pretese il sacrificio di quell’esempio di ‘carità laica’ che non faceva onore né alla Chiesa, appena reduce dall’Anno Santo, né ancor meno al potere politico democristiano in procinto di celebrare con le imminenti Olimpiadi la riscossa economica e civile del Paese. Nulla veniva ammesso che potesse turbare la coscienza degli elettori.

Il produttore Dino De Laurentiis obbedì senza fiatare; e aggirando il regista, si recò di notte in moviola a rimontare il film, riuscendo persino a far sparire il negativo della sequenza incriminata. Molti anni dopo, all’epoca in cui giravo Fellini nel Cestino (1984), ritrovai per vie rocambolesche presso lo stabilimento della Staco Film quei 150 metri di pellicola scomparsa, e riuscii a mostrarli per la prima volta in televisione. A quel punto ogni tabù era definitivamente superato e al tempo della mia direzione della Fondazione Fellini presentai il film restaurato nella sua completezza al grande pubblico dell’Estate Romana, in un’emozionante proiezione all’aperto, sull’Appia Antica, di fronte al Mausoleo di Cecilia Metella, alla quale accorsero quasi mille spettatori.

Giustizia era stata fatta, e bisogna dire che quella straordinaria storia cinematografica, vincitrice di un Premio Oscar, è impossibile ripensarla oggi mutilata della coraggiosa e poetica rievocazione di quella Roma derelitta. Fellini ci mostra una povertà da girone infernale che nessuno avrebbe potuto sospettare nella Capitale d’Italia del Ventesimo secolo. Il racconto dell’Uomo del sacco risulta di un’intensità struggente a cui la musica di Nino Rota dona un’assorta e sospesa misteriosità.

 

Intorno a Fellini e la carità c’è ancora da aggiungere un episodio marginale, ma molto significativo, di cui sono venuto a conoscenza dopo la morte del regista. Ancora giovanissimo, Federico trasferendosi a Roma, era approdato come si sa al Marc’Aurelio, il quindicinale satirico che era stato per lui un’autentica palestra professionale. Era finalmente a contatto con i migliori disegnatori dell’epoca e soprattutto con quella schiera di umoristi che avrebbero alimentato la rinascita del cinema italiano nel passaggio dal fascismo al periodo postbellico: Marcello Marchesi, Cesare Zavattini, Mino Maccari, Vittorio Metz, Steno (Stefano Vanzina) e molti altri. Il suo iniziale referente era stato Enrico De Seta, un suo mito, a cui non perdonò mai l’atteggiamento gretto e rapace: il grande disegnatore, vignettista, illustratore, e tra i più eccellenti cartellonisti cinematografici, non era prodigo con i giovani, anzi approfittava della sua posizione di superiorità per lucrare sui loro grami guadagni trattenendo una consistente percentuale su ogni compenso. Federico, che parlava assai raramente di questioni di denaro, mi narrò questa angheria come una piaga non rimarginata, ancora con tangibile disprezzo nella voce e una sorda rabbia. Il ricordo di quel taglieggiamento lo offendeva e lo feriva a distanza di tanti anni, forse perché era rimasto deluso dal personaggio che dentro di sé ammirava per il talento non comune. Nondimeno nel 1944, dopo l’arrivo delle forze alleate a Roma, avevano aperto insieme la bottega del “The funny face shop“, nella quale dipingevano caricature per i militari americani; e De Seta in seguito realizzò anche i manifesti per I vitelloni e La strada.

Passarono lustri senza che i due si vedessero; Fellini diventato famosissimo non ne volle più sapere. Poi un giorno arrivò la moglie di De Seta, che si era spinta fino a Cinecittà pur di poter parlare con il regista. Rimase a lungo a colloquio nel suo ufficio, per chiedergli un aiuto in segreto: il marito Enrico era sofferente di una gravissima malattia, incurabile in Italia, e si rendeva indispensabile una trasferta negli Stati Uniti; non avevano i soldi per sostenere il viaggio e un soggiorno così protratto, che si sarebbe aggiunto al costo dell’intervento, del quale non conoscevano ancora l’ammontare. Fellini tirò fuori il libretto degli assegni e firmò senza discutere la cifra indicata. Rassicurò la signora che avrebbe sostenuto interamente l’onere degli spostamenti aerei, dell’operazione e del ricovero ospedaliero fin quando non fossero rientrati in Italia. E avrebbe continuato ad aiutare l’antico amico anche in seguito fino a completa guarigione. Ma a un patto: De Seta non avrebbe mai dovuto sapere da chi provenisse quell’aiuto.

Appresi questa seconda parte del racconto dal suo segretario fiduciario Enzo De Castro, il quale conservava tutte le matrici dei carnet di assegni.

De Seta in seguito all’intervento ebbe buona salute e visse fino a 90 anni. Quando nel 1998 mi recai a trovarlo nel suo studio per conto della Fondazione Fellini, mi resi conto che non sapeva nulla del gesto di generosità di Federico nei suoi confronti. Tuttavia usò verso l’uomo e l’artista accenti di assoluta devozione e rispetto.


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