Allarme guerra Iran, sette cose da sapere per tenere i nervi saldi

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Quando le tensioni si costruiscono artatamente sui tavoli della politica,  come sta accadendo da mesi con le politiche di Trump contro l’Iran  che hanno appena fatto sfiorare pericolosamente una nuova guerra in Medio Oriente, un po’ di sangue freddo non guasta anche sui tavoli di chi fa informazione. Ecco dunque alcuni punti fermi da tenere in mente. Le ragioni di un attacco militare contro l’Iran possono essere diverse ma Trump, nell’annunciare la sua decisione di evitare un attacco militare in risposta all’abbattimento di un drone Usa, ha puntato su una: “L’Iran non avrà mai un’arma nucleare, non contro gli Usa e non contro il mondo!” Eppure cinque potenze mondiali più una decisero solo quattro anni fa che il modo migliore per scongiurare tale pericolo fosse l’accordo sul nucleare siglato a Vienna del 14 luglio del 2015 (Jcpoa). Dal quale gli Usa sono unilateralmente usciti. Partiamo dunque da qui.

  • L’Iran non è sulla strada di costruire un’arma atomica. I vertici della Repubblica islamica hanno sempre negato di volerlo fare, e se anche ora cambiassero idea (cosa che equivarrebbe ad un suicidio, visto il dispiegamento di forze ostili nell’area) avrebbero bisogno, per come dovrebbero stare ancora le cose in base agli accertamenti dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica), di diversi mesi per farlo. L’accordo sul nucleare limitava lo sviluppo di un programma che già aveva solo scopi civili e non militari. Il 15 dicembre 2015 l’Aiea ha chiarito infatti una volta per tutte la questione della Possibile dimensione militare (PMD) del programme iraniano. In una risoluzione del suo Board of Governors, infatti, si parla di una”serie di attività rilevanti” per la possibile realizzazione di un’arma atomica condotte dall’Iran “fino alla fine del 2003 nell’ambito di un progetto coordinato”, e di alcune attività che hanno avuto luogo anche dopo, ma solo come studi scientifici e tecnici, e non oltre il 2009. Dopo di allora sono intervenute le sanzioni internazionali del 2011 e 2012, e poi l’accordo del 2015. Accordo che l’Iran, come certificato una quindicina di volte dall’Aiea, ha rispettato alla lettera fino al cosiddetto “ultimatum” del presidente Rouhani dell’8 maggio scorso, in cui si annuncia un primo e minimo passo indietro dagli impegni presi, ma nell’ambito di quanto previsto dallo stesso accordo. Eppure in questi mesi e giorni accade ancora di leggere, anche su giornali autorevoli – probabilmente solo per la disattenzione di qualche collega sopraffatto dalla imperante strategia di una anche retorica tensione –  che il programma nucleare iraniano avrebbe dovuto condurre all’arma atomica.
  • L’’ultimatum’ di Rouhani non è un’uscita dall’accordo sul nucleare: è stato Trump ad uscirne, tradendo gli impegni presi da Obama e mettendo anche l’Europa nelle condizioni di non poter rispettare i propri con le sanzioni extraterritoriali. L’iniziativa di Rouhani è infine giunta solo un anno dopo l’uscita di Trump dall’accordo, a dimostrazione della grande “pazienza strategica” finora dimostrata dalle autorità della Repubblica Islamica nonostante le forti pressioni dei falchi di casa propria. Ed è appunto un’iniziativa presa nel pieno rispetto dell’accordo sul nucleare. In base agli articoli 26 e 37 del Jcpoa, infatti, e alla luce dell’uscita Usa dall’accordo e dell’inadempienza di fatto dei partner europei, Rouhani ha annunciato che l’Iran non avrebbe più rispettato i limiti delle scorte di uranio arricchito al 3,67% e di acqua pesante che continuava legittimamente a produrre – limiti che aveva rispettato sino ad allora esportando gli eccessi all’estero. Inoltre, ha dato agli altri partner del Jcpoa, e in particolare all’Europa,  60 giorni di tempo per mettere sul tavolo soluzioni più fattuali per garantire agli iraniani i vantaggi economici derivanti dall’accordo. Dunque, nonostante l’ultimatum,Teheran ha tenuto aperto il dialogo diplomatico. Quell’ultimatum scade il 7 luglio, e costringe i partner europei a far diventare l’Instex, il canale commerciale alternativo per continuare gli scambi con l’Iran, qualcosa di più di una scatola vuota. Non a caso è stato appena convocato per il 28 giugno un vertice tra i Paesi firmatari del Jcpoa per fare il punto sull’Instex e le ultime  tensioni nel Golfo. Alla scadenza dell’ultimatum, e senza risposte da parte dell’Europa, l’Iran è pronto a ricominciare dunque ad arricchire l’uranio oltre la soglia finora consentita dal Jcpoa (3,67%) e sulla base dei propri interessi nazionali. Ed è possibile che lo faccia fino al 20% per ragioni scientifiche, ha precisato il portavoce dell’Agenzia atomica iraniana, mentre per  costruire un ordigno atomico si dovrebbe arrivare oltre il 90%: cosa possibile mettendo in opera tecnologie di cui al momento, proprio grazie al Jcpoa, l’Iran non può disporre.
  • I sabotaggi delle petroliere al largo dello stretto di Hormuz e il drone USA abbattuto dai Pasdaran.
    In entrambi i casi, come per i fatti delle precedenti settimane attribuiti a Teheran, non vi sono certezze su dinamiche e responsabilità. La ‘paternita’ di quei sabotaggi resta tuttora controversa, nonostante le apodittiche accuse rivolte dagli Usa all’Iran. E resta incerta anche l’esatta posizione del drone Usa colpito, se cioè questo sorvolasse acque internazionali o il territorio iraniano. E se anche il drone si fosse trovato in acque internazionali, un più o meno deliberato errore non potrebbe che ricondursi alla tensione delle ultime settimane.
  • E dunque chi è responsabile di questa esasperata tensione? Quest’ultima fase è cominciata a metà maggio, prima con l’annuncio da parte di Washington dell’arrivo nella regione del Golfo di una flotta da guerra guidata dalla portaerei Abraham Lincoln, di una squadra di bombardieri B52 e di una batteria di missili Patriot, tutto  per contrastare non meglio precisate minacce di Teheran contro gli interessi statunitensi o dei loro alleati. Poi con l’annuncio di un piano per inviare  un massimo di 120.000 soldati americani in Medio Oriente nel caso in cui Teheran dovesse attaccare le forze americane o accelerare sulle armi nucleari. Finora sono 1.500 i militari effettivamente inviati,  cui se ne aggiungono altri mille appena annunciati. Atti compiuti dagli Usa sulla base di imprecisate minacce rilevate dall’intelligence, ma mai circonstanziatamente precisate. Dall’altra parte si assisteva ad altri attacchi sospetti a petroliere nel Golfo, a lancio di un missile vicino all’ambasciata Usa a Bagdad ed ad un moltiplicarsi di azioni contro l’Arabia Saudita da parte dei ribelli Houthi in Yemen – ma anche la natura e l’entità del sostegno iraniano a quelle milizie non è precisata.
  • E’ vero che la politica regionale dell’Iran è destabilizzante e aggressiva, come nella accuse degli Usa e di Israele? In realtà, essa appare piuttosto perfettamente rispondente alle logiche descritte in uno studio dell’ISPI a cura di Annalisa Perteghella. https://www.ispionline.it/en/publication/la-politica-regionale-della-repubblica-islamica-di-iran-22343. Cioè a quell’ormai quarantennale senso di “solitudine strategica” e di “assedio” da parte degli Usa e delle altre potenze regionali,  cui Teheran ha risposto cercando di “di accrescere la propria profondità strategica e di raggiungere l’autosufficienza nel campo delle capacità militari non convenzionali, o asimmetriche, creando inoltre un network di partner e proxies nella regione, allo scopo di tenere lontano le minacce. È quella che Teheran definisce ‘strategia della difesa avanzata’: se non è possibile difendersi lungo i propri confini, è necessario creare degli avamposti di difesa altrove nella regione, principalmente in stati dalla struttura istituzionale debole come il Libano e l’Iraq”. Questo in un quadro in cui “nel 2017 – precisa ancora lo studio – la sua spesa militare è stata di 14,5 miliardi di dollari; quella di Israele di 16,4 miliardi di dollari (più ulteriori 3,5 miliardi in aiuti militari statunitensi), quella dell’Arabia Saudita di 69,4 miliardi di dollari”. Senza contare gli ulteriori finanziamenti giunti da quando Trump scelse proprio Riad e Israele, nel 2017, per il suo primo viaggio all’estero da presidente.
  • I missili balistici iraniani sono da considerarsi una minaccia?. Certo, lo possono essere, ma ad oggi sono concepiti solo come arma di difesa in caso di attacco, e nel contesto generale appena descritto. I missili balistici sono “una deterrenza contro le minacce dei nemici” e capaci di affondare navi ostili nel Golfo Persico e nel Mar Arabico”, ha orgogliosamente detto nei giorni scorsi il comandante dei Pasdaran Hossein Salami. Omettendo tuttavia di aggiungere che, se anche ne lanciasse uno solo, l’Iran si ritroverebbe sotto attacco da parte di tutti: Usa, potenze arabe del Golfo e Israele. E dunque i missili hanno appunto solo una funzione deterrente. Come l’avrebbe del resto anche un’eventuale bomba atomica, se mai un giorno Teheran decidesse di costruirla, con una decisione che probabilmente comporterebbe però già da sola un attacco da parte di Israele, potenza nucleare non dichiarata ma che di testate nucleari ne avrebbe invece parecchie, e che non ha mai firmato, a differenza dell’Iran, il Trattato di non proliferazione nucleare.
  • Ma l’Iran non rispetta i diritti umani. Vero, non lo fa, da una parte perché la Repubblica islamica adotta la sharia come fondamento del proprio ordinamento giudiziario (ma non è  l’unico Paese dell’area a farlo), dall’altra perché con la repressione e processi opachi il sistema si tutela dagli oppositori interni. Ma se non fosse stato per l’orrendo omicidio del giornalista saudita Khashoggi  continueremmo a dimenticarci anche noi, oppure continueremmo a parlarne troppo poco, di quanto questi diritti siano violati non solo in Arabia Saudita, ma anche in altri Paesi ostili all’Iran. Del resto, da quando in qua l’Occidente scatena guerre in Medio Oriente per tutelare i diritti umani? E’anche vero d’altra parte che, se di diritti umani si parla molto di più per l’Iran che per altri Paesi, questo lo si deve anche al coraggio di una società civile forte e matura, che denuncia le violazioni e vi si oppone anche rischiando il  carcere e pesanti condanne. E lo fa con tanta determinazione da rischiare anche che le proprie denunce, raccolte e rilanciate da soggetti terzi impegnati a costruire invece una macchina di propaganda anti-iraniana, vengano usate, come i diritti umani stessi, come un’impropria arma di guerra. Riteniamo forse che questa società civile, che rivendica un sistema più giusto, sarebbe aiutata o piuttosto messa all’angolo da una guerra che tanto avventatamente la Casa Bianca sembrava essere pronta ad ingaggiare contro l’Iran?
    Il rischio di una guerra sembra per ora allontanato da un ripensamento notturno di Trump, ma non scongiurato. Ecco perché anche noi giornalisti dobbiamo tenere i nervi saldi.

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