Dal Genocidio armeno alla Diaspora dei cristiani d’Oriente.

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C’è una lunga scia rossa che attraversa oltre un secolo nella storia della comunità cristiana d’Oriente. Una sorta di Diaspora dei Cristiani, disseminata anche di persecuzioni, massacri, lunghe prigionie e distruzioni di chiese e santuari, oltre che di espropriazioni ed esili forzati, di fughe per la vita. Ha preso spesso le sembianze di una “guerra di religione”, soprattutto tra islamici, predominanti, e cristiani, vittime designate. Ma in realtà si è tratta di una lotta senza quartiere e non convenzionale per la supremazia economica, culturale e territoriale, che si ammanta di ideologizzazioni religiose, per coinvolgere come “braccia armate” proprio quelle fasce sociali più deboli o più sensibili ad essere strumentalizzate dai potentati fondamentalisti islamici del Medio ed Estremo Oriente.

Il tutto inizia in Turchia tra il 23 e il 24 Aprile del 1915 e culmina, almeno per ora, nelle stragi in Sri Lanka la domenica di Pasqua di questo 21 Aprile.

Oltre un secolo fa, mentre l’Europa si dilaniava nella Prima Guerra Mondiale, in Turchia il Movimento dei Giovani Turchi, guidati dal futuro “padre della patria” Mustafa Kemal Ataturk, disarcionava del tutto il regime dispotico di quello che per lungo tempo era stato l’Impero Ottomano. Ma a caro prezzo per la comunità cristiana armena e non solo. Il “Medz Yeghern, ovvero il “Grande Male” si perpetrò fino al 1917 con il massacro scientifico della popolazione cristiana (siro cattolici, siro ortodossi, assiri, caldei e greci), ma soprattutto di 1,5 milioni di armeni su una popolazione di 2 milioni, presenti su quei territori da Tremila anni! Allo sterminio presero parte, secondo documenti storici, anche ufficiali dell’Impero prussiano, alleato della Turchia nella guerra.

Dovettero passare 70 anni perché la comunità internazionale lo riconoscesse questo genocidio: nel 1985, con una delibera della Sottocommissione dei diritti umani dell’Onu, e poi nel 1987 con il Parlamento Europeo. Condanna che l’Europarlamento ha ribadito con una risoluzione del 16 aprile 2015, nella quale s’invitavano “l’Armenia e la Turchia ad utilizzare il Centenario del genocidio armeno per rinnovare le relazioni diplomatiche, aprire i confini e spianare la strada per l’integrazione economica”, sottolineando la necessità che la Turchia ammettesse “il genocidio armeno”.

Tra i maggiori paesi che riconoscono il genocidio, quasi una trentina, ci sono l’Italia (Risoluzione votata dalla Camera nel Novembre 2000), e la Francia, dove vive la comunità armena più numerosa con 350mila persone ed è stato introdotto il reato di “negazionismo” come per la Shoah ebraica. Il primo stato al mondo a riconoscere l’Olocausto degli armeni, nel 1965, fu comunque l’Uruguay. Nel 2015, Papa Francesco durante le celebrazioni del Centenario a Erevan, capitale dell’Armenia, definì il massacro come “il primo genocidio del XX secolo” scatenando l’ira della Turchia, dove l’utilizzo del termine è punito con il carcere in base all’articolo 301 del codice penale che prevede il reato di “vilipendio dell’identità turca”. A giugno 2018 il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, anche a seguito di una rinnovata alleanza geopolitica con la Turchia (nemica della Siria dilaniata dalla guerra con l’ISIS, a sua volta aiutata dalle truppe degli Indipendentisti Curdi), fece invece slittare “sine die” il dibattito alla Knesset sul riconoscimento del genocidio.

Ambigua la posizione degli Stati Uniti, dove il Congresso approvò nel marzo 2010 una risoluzione che chiedeva al presidente Obama il riconoscimento di questo Olocausto; ma lui non mantenne la sua promessa elettorale del 2008, quando si schierò per il riconoscimento ufficiale del “genocidio armeno”. Nel saluto inviato agli Armeni per il Centenario, ha invece optato per parole più diplomatiche pur di non offendere la Turchia “alleato privilegiato” e il suo presidente-dittatore Erdogan, che ha fustigato il discorso di Papa Francesco sul genocidio e che si è detto pronto ad espellere gli ultimi 100 mila armeni ancora rimasti sul suolo turco. Anche per l’attuale presidente USA, Donald Trump, il termine “genocidio” non sembra appropriato; per lui si trattò solo di “atrocità di massa”.

Diversamente, invece, si sono comportati i tedeschi, nonostante abbiano sul loro territorio 4 milioni di abitanti di origine turca. Sempre nel 2015, Angela Merkel dichiarò: “Oggi la Germania considera il massacro di 100 anni fa come un genocidio”. Ancora oltre andò l’allora Presidente della Repubblica, Joachim Gauck, che riconobbe anche la “corresponsabilità” tedesca. “Dobbiamo indagare nella nostra memoria”, disse Gauck. E in merito ai consiglieri tedeschi che all’epoca aiutarono a pianificare le deportazioni, affermò: “La Germania ha avuto una responsabilità condivisa, forse anche una colpa condivisa, per il genocidio degli Armeni”. La strage degli Armeni in effetti fu una specie di “prova generale” delle tecniche di sterminio, poi attuate dai nazisti, cui si ispirò lo stesso Hitler, come dichiarò pubblicamente.

Da allora, nei libri ufficiali di storia è scritto solo di turchi massacrati dagli armeni e ancora oggi parlare di genocidio equivale ad un “insulto all’identità turca”, secondo l’articolo 301 del codice penale turco. Si può essere incarcerati, perseguitati, come lo scrittore Premio Nobel Orhan Pamuk, o addirittura uccisi, come successe il 19 gennaio del 2007, al giornalista armeno Hrant Dink, fondatore della rivista bilingue turco-armena Agos, assassinato a Istanbul per aver parlato e scritto pubblicamente del genocidio.

Il 10 aprile la Camera dei Deputati ha approvato, con 382 voti a favore, 43 astenuti (di Forza Italia) e nessun voto contrario, una “Mozione unitaria che impegna il governo a riconoscere ufficialmente il genocidio e a darne risonanza internazionale”. Forse questo documento, nonostante le rimostranze diplomatiche turche, servirà a smuovere una nostra ritrosia, che trova le sue fondamenta nella stessa Alleanza Nato. E che si cementa anche nel corposo interscambio commerciale, finanziario e industriale, che pone l’Italia al quarto posto con 19,8 miliardi di dollari di interscambio totale, di cui 11,3 miliardi di dollari in esportazioni e 8,5 miliardi di dollari in importazioni e una quota di mercato del 5,1%.

La Diaspora contemporanea dei Cristiani d’Oriente ha ripreso a solcare le terre desertiche, le alture, i mari e i fiumi dell’Iraq e della Siria. Dalla Prima guerra del Golfo nel 1991 alla seconda e più terribile nel 2003 contro l’Iraq, qui la comunità cristiana è stata sterminata. Certo, ha prevalso l’immagine di uno scontro religioso tra sunniti e sciiti, da una parte, e la galassia dei riti cristiani dall’altra. In realtà si è trattato di una vera e propria espropriazione territoriale della presenza di quei ceti sociali, che contavano a livello economico, culturale e politico nazionale ed internazionale. Basti pensare al potente ministro dell’esteri iracheno, il cristiano Tarek Aziz.

In Iraq vivevano 1,5 milioni di cristiani agli inizi degli anni Novanta. Oggi, secondo le statistiche stilate dalle organizzazione internazionali umanitarie ne sono rimasti appena 146 mila, “una decimazione”, come ha recentemente annotato Lucia Annunziata in un suo reportage da quelle terre martoriate dall’ISIS su Huffington Post.

Cattolici greco-ortodossi di Antiochia, ortodossi siriaci, cattolici melchiti, maroniti, armeni, caldei, persino piccolissimi nuclei di protestanti evangelici: ma prima di tutto popoli euroasiatici che si erano stabiliti in tutto il Medio Oriente, poco dopo l’evangelizzazione cristiana in epoca imperiale romana, molti secoli prima della nascita e dello sviluppo dell’Islam predicato da Maometto. Gli sciiti iraniani da una parte e i sunniti dell’ISIS, fomentati dai salafiti e dai wahabiti dell’Arabia Saudita, sono riusciti nell’intento di scalzare dalle élites locali i cristiani, attuando una sorta di pulizia etnica, anche ammantata da motivazioni religiose. In realtà, si cerca di creare una separazione geografica e sociale tra mondo islamico e mondo occidentale. Non si tratta quindi di uno scontro religioso, di nuove crociate, ma di una strategia per la supremazia territoriale per sfruttare le fonti energetiche, minerali rari, incrementare le risorse finanziarie e demarcare gli stili di vita socio-culturali.

Secondo le statistiche dell’autorevole Pew Research Center di Washington prima della guerra in Siria, si calcola che la comunità cristiana contasse il 13% della popolazione, all’incirca 2,5 milioni di persone. Aleppo nel Nord con 300 mila cristiani era la terza maggiore città cristiana del mondo arabo, dopo Beirut e Il Cairo. Si stima che almeno 900 mila cristiani siano fuggiti dal paese e abbiano ingrossato i campi profughi di Giordania e Libano, mentre altri hanno tentato le tortuose e pericolose strade della migrazione verso l’Europa. Oggi, sarebbero rimasti solo 250 mila cristiani tra le macerie delle città siriane.

Una Diaspora, intramezzata da stragi terroristiche di fondamentalisti islamici, che non ha risparmiato neppure l’Egitto, paese arabo che vanta la maggiore presenza di cristiani, oltre 4 milioni di copti, ovvero il 5% rispetto ai 76 milioni di islamici, il 95%. In pochi anni la loro presenza ha subito un calo dall’8%. Ora in Medio Oriente e in Nord Africa, la presenza dei cristiani si è assottigliata allo 0,6% e si va ancor più marginalizzando

Certo, nell’Africa subsahariana, la presenza dei cristiani, sempre secondo il Pew Research Center, è maggioritaria (46,53% rispetto al 40,46% dei musulmani): 500 milioni, il vero serbatoio di credenti e di vocazioni per il futuro della Chiesa di Roma. Ma nello stesso tempo crescono le violenze nei loro confronti da parte dei gruppi terroristici islamisti, spinti e sostenuti da oligarchi locali e finanziati dagli oligarchi del Golfo arabo, proprio per ridurre l’influenza di quegli strati sociali che finora dominavano la politica e l’economia dei paesi principali dell’Africa nera.

A questa Diaspora dei Cristiani d’Oriente potrà opporsi la testimonianza evangelica di Papa Francesco, così impegnato nella sua strategia di riconciliazione con l’Islam? E’ questo il fine ultimo del Documento sulla “Fratellanza Umana”, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio scorso insieme alla più alta autorità musulmana, il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Come di recente ha sentenziato: “Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra”.

Ma se i paesi occidentali, specie l’Unione Europea, non acquisiscono la consapevolezza di agire in prima persona nello scacchiere geopolitico orientale; discernendo le alleanze con i paesi islamici dagli interessi meramente economici, energetici e finanziari; anteponendo invece i propri valori secolari in difesa dei diritti universali delle persone, delle libertà individuali e collettive, della non-violenza, della tolleranza e reciprocità religiosa, assisteremo ad un’escalation di terrorismo e di “guerre non convenzionali per procura” fin dentro i nostri confini.


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