Jihadismo. Un “ritardo” italiano

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intervista a Renzo Guolo. Docente di Sociologia delle religioni all’Università di Padova.[intervista a cura di Asia Leofreddi]

 

Abbiamo intervistato Renzo Guolo, docente di Sociologia delle religioni all’Università di Padova, membro della Sezione di sociologia della religione dell’Associazione italiana di sociologia (Ais). Vasto il campo di interesse delle sue ricerche: il rapporto tra religione e politica; i fondamentalismi contemporanei; i processi di radicalizzazione; l’islam in Europa; società e politica nei paesi islamici; conflitti e processi d’integrazione nelle società multiculturali. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: L’islam è compatibile con la democrazia (2007), Identità e paura – Gli italiani e l’immigrazione (2010), Chi impugna la croce – Lega e Chiesa (2011) e L’ultima utopia. Gli jihadisti europei (2015).

Esiste il jihadismo in Italia?
Esiste sicuramente, come conferma il dato dei circa 130 foreign fighters che si sono recati in Siria tra il 2015 e il 2018 per partecipare al conflitto siroiracheno, i quali sono sociologicamente italiani nel senso che o sono convertiti, oppure sono residenti che vivono da lungo tempo in Italia o fanno parte della seconda generazione in quanto hanno compiuto il loro ciclo scolastico nel nostro paese.

Rispetto ai fenomeni di radicalizzazione lei parla di “ritardo italiano”. Cosa intende con questa espressione?
Significa che, tra i grandi paesi europei, noi siamo quello in cui il fenomeno è stato più contenuto. Il “ritardo” è dovuto a diversi fattori. Innanzitutto, alla diversa composizione demografica del ciclo migratorio. Rispetto alla Francia, alla Germania e alla Gran Bretagna, in Italia le seconde generazioni, notoriamente più sensibili alla propaganda islamista radicale, sono meno consistenti. In secondo luogo, la comunità musulmana è plurale e frammentata, e così anche l’associazionismo islamico. Gli attori migratori rimangono molto sensibili alla cultura e alle usanze del proprio gruppo di provenienza, facendo da barriera alla penetrazione di ideologie transnazionali.                                                                          Inoltre, questo “ritardo” è stato dovuto a fattori economici ed urbanistici. A causa della struttura produttiva italiana, composta da un tessuto di piccole imprese disseminate sul territorio, in Italia non abbiamo avuto una concentrazione di immigrati in grandi agglomerati socialmente problematici come le periferie francesi o i sobborghi di Bruxelles. Infine, l’azione di contrasto dell’intelligence e delle forze di polizia italiane ha funzionato più che in altri Paesi.

Ha fatto riferimento alle seconde generazioni come la categoria più sensibile alla propaganda islamista radicale. Quali sono le motivazioni che inducono i giovani alla radicalizzazione?
La grande questione che riguarda i giovani europei radicalizzati è la riscoperta della religione come elemento identitario antagonistico, in una realtà in cui non sentono di avere un’identità specifica. Una malintesa interpretazione della religione diventa il mezzo attraverso cui denunciano un ordine che ritengono ingiusto, stigmatizzante e discriminante.
Ci sono anche altri motivi ma il tema dell’identità è rilevante e, in Italia, è testimoniato anche dalla forte presenza di una componente jihadista femminile. Molte donne italiane per nascita o per acquisizione, sono partite per la Siria, rivendicando questa scelta come la ricerca di un’identità altra rispetto a quella dei contesti originari di appartenenza.

Lei ha definito l’ideologia islamica radicale, l’ultima grande ideologia antagonista. Può spiegare meglio il senso di questa sua affermazione?
In un momento in cui le ideologie novecentesche classiche sono venute meno, e non c’è nessuna ideologia che metta in discussione l’ordine esistente da un punto di vista politico ed economico, l’islam radicale colma drammaticamente un vuoto. Si propone più che come tradizione, come ideologia di contestazione dell’ordine globale. E, per molti giovani che si trovano in condizioni di disagio o di rigetto della condizione in cui vivono, appare come l’ultimo grande strumento che possa consentire un’opposizione totale e totalizzante.

In quali contesti avvengono i processi di radicalizzazione?
Sicuramente in Rete, tanto che si potrebbe dire che molti giovani si radicalizzano a casa. A differenza di altri Paesi europei, il reclutamento massiccio non avviene nei luoghi di culto, dato anche il forte controllo a cui essi sono sottoposti. Altro discorso è per il carcere.

Nelle carceri, infatti, sono molti i detenuti a rischio radicalizzazione. In quel contesto il ritorno alla religione risponde a un bisogno di certezze, d’identità, a un’esigenza di far fronte ai propri fallimenti personali.

Il problema è che, molto spesso, questo ritorno alla religione da parte di persone “de-islamizzate” (musulmane per cultura e/o per tradizione familiare, ma non praticanti ndr) avviene a contatto con persone già radicalizzate e che trasmettono loro una visione del mondo limitata a una precisa concezione della religione. Da qui nasce l’esigenza, ormai già molto dibattuta, di fare entrare in carcere guide religiose in grado di produrre un discorso sulla religione di matrice non radicale.

Come si possono equilibrare il diritto alla libertà religiosa e la lotta al terrorismo?
Questo è un passaggio essenziale. Sarebbe una follia criminalizzare una religione per l’emergere di fenomeni di radicalizzazione: le cose vanno tenute ben distinte. La libertà religiosa va garantita costituzionalmente come libertà essenziale per la persona umana. E come tale va tutelata. Il problema è riuscire a far emergere l’islam in Italia per quello che effettivamente è.

Il fatto che manchi un’intesa o una legge che garantisca davvero la libertà religiosa, fa sì che la religione islamica venga percepita da gran parte della società italiana come una religione di stranieri e ostile. Più lo spazio religioso viene inserito in una cornice che in qualche modo è istituzionalizzata, in una relazione definita tra Stato e confessione religiosa, più l’esercizio del diritto di culto e della libertà religiosa è scevro da discriminazioni, e più creiamo degli antidoti alla radicalizzazione.

Mettere in condizione l’islam di esplicitarsi liberamente nel rispetto dei diritti e dei doveri previsti dalla Costituzione avrebbe degli effetti non solo contro il radicalismo, ma anche contro una sua possibile egemonia culturale interna all’islam e aiuterebbe a smontare la propaganda radicale che dipinge l’Occidente senza libertà religiosa per i musulmani e, perciò, ostile all’islam.

Quali sono a suo avviso altre possibili forme di prevenzione?
Sicuramente la scuola è un terreno essenziale per la prevenzione di tali fenomeni: alcuni radicalizzati avevano compiuto un ciclo di studi in Italia. La scuola dovrebbe favorire il pluralismo, permettere di comprendere anche l’identità religiosa dei nuovi cittadini e residenti, impegnarsi a smontare stereotipi che producono stigmatizzazione e vittimizzazione, due dei più potenti volani per la radicalizzazione giovanile.

Qualche tempo fa abbiamo sentito la notizia di un uomo italiano di Catania, ex detenuto, che si era radicalizzato. Come possiamo leggere queste notizie? Soprattutto, che rilevanza hanno rispetto alla questione della radicalizzazione in Italia?                                                                                                                                                       Non è una novità. La radicalizzazione riguarda anche i convertiti e dipende da come questi si approcciano alla realtà dell’islam. Se anziché conoscere la religione islamica vengono a conoscenza dell’ideologia radicale islamista, è chiaro che possono verificarsi fenomeni di questo tipo. Poi ci sono le storie personali, che talvolta hanno a che fare con gli equilibri psicologici dei singoli.

Spesso le conversioni che spingono alla radicalizzazione nascono dall’idea che l’islam radicale sia il vero islam mentre non è che è una sua versione politica e ideologica.

Da confronti


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