“La commozione è forte nel ritrovarsi…” Una testimonianza di profughi dalla Bosnia

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Majda. I tuoi occhi questa mattina si sono stampati nei miei. I nostri occhi sono gli occhi di due mamme che si abbracciano, piangono e pregano all’unisono, sebbene non ci fossimo mai incontrate prima e nessuno mi avesse mai parlato di te.

Arriviamo al campo profughi; ci muoviamo con fare dimesso, di chi ha compreso a poco a poco che anche quella fragile vita che state vivendo va rispettata. Appena entrata nell’ala ovest, sulla mia destra un grosso scalone in cemento, incompleto e senza protezioni, mi invita a salire e mentre salgo osservo quell’antro nero sotto lo scalone. Penso al mio bambino a casa, che talvolta la sera chiede insistentemente di essere accompagnato a lavare i denti perché ha paura del buio. In quell’antro, nero anche in pieno giorno, sono montate due tende.

I miei scarponi  sguazzano in pozze d’acqua maleodoranti; eppure da giorni non sta piovendo, ma le infiltrazioni ed il muschio mantengono un livello di umidità inaccettabile che trasuda dai pavimenti ancora grezzi, consumati dal tempo e dalla guerra. L’aria è pesante, sa di muffa e di fumo; alcuni bracieri usati per cucinare sono accesi. Fotografo la pozza ed il soffitto verde di muschio e mentre ritiro il telefono abbassando gli occhi, in un attimo i nostri sguardi si incrociano.

Stai cercando con una scopa di saggina senza manico di pulire e riordinare il tuo rifugio. Una delle pareti ha una grossa apertura, ma di una finestra neanche l’ombra; da un capo all’altro di quel varco, che non protegge né dal caldo né dal freddo e neppure dalla pioggia, con un filo tirato alla buona, hai steso i panni di tutta la tua numerosa famiglia. Un filo.

Ci guardiamo. Io per rispetto faccio un cenno in avanti congiungendo le mani verso il petto in segno di saluto e di rispetto, quasi volendomi scusare per essere entrata a vedere le vostre vite, la tua vita.

Mi fissi ancora come a chiamarmi, ma non osi. Io purtroppo non ho molta misura con i sentimenti e le usanze altrui e mi avvicino a te, passando fra le tende. Due parole in un inglese semplice con me e la mia compagna di viaggio Elena e inspiegabilmente ci troviamo abbracciate, in un abbraccio che è tutto quello che posso darti in questo momento e che credo sia l’unica cosa che tu mi stia chiedendo.

La commozione è forte nel ritrovarsi. In quell’abbraccio ci riconosciamo come donne, come mamme, come mogli, come figlie, come sorelle, come amiche.

Sei giovane, ma quando lo dici ti affretti subito a giustificarti per i segni di una maturità più avanzata a causa di ciò che hai visto e vissuto, ma i tuoi occhi brillano ancora nel profondo, sono magnetici, perché mi trasportano nel tuo mondo e in un attimo mi levo le scarpe assieme ad Elena e ci accomodiamo sulle coperte stese a terra di fronte alle tende. L’ultima è una coperta rossa natalizia, con disegni stilizzati di fiocchi di neve e campane. Ti scusi perché non sei riuscita a trovare qualcosa per raccogliere lo sporco, ma sposti tutto il possibile per farci spazio.

Da mangiare ne avete lì al campo: colazione e pranzo, con qualche scorta in più per la sera sono fornite dai volontar. Gli uomini sono quasi tutti in fila lungo il declinare della collina per ritirare il pasto o sedersi a mangiare ai tavoli. Le donne come te restano nelle tende e posso davvero capirlo in questo contesto prettamente maschile e di stenti. Il cibo previsto per la sera credo vada nei vostri zaini o barattato per qualcosa di più urgente in quel momento. Suppongo accantoniate i prodotti non deperibili per quando sarete in viaggio. Immagino che dopo così tanto tempo senza poter scegliere cosa mangiare il desiderio di qualcosa di buono, che sappia di casa, sia davvero un sogno. Forse avete perso anche questo desiderio perché non ricordate neanche più il gusto di quel che vi piaceva. Nonostante tutto tuo marito mi offre del cibo, non oso. Un po’ di diffidenza date le condizioni igieniche mi trattiene dal farlo purtroppo, perché so che lo avete offerto con il cuore. Vorrei darne io a voi ad ogni tappa del vostro viaggio.

Ci accomodiamo e cercando di non essere troppo pressanti cominciamo a chiedere: del vostro paese di origine, del vostro viaggio, cercando soprattutto di ascoltare  quello che avete urgenza di farci sapere.

Ci parliamo in un inglese improvvisato, anche perché per certi argomenti non credo si abbia un dizionario fornitissimo a riguardo. Ci racconti che nelle piazze del tuo paese i “boom” sono normali.

Così mi presenti tuo figlio maggiore che ti ascolta e ti aiuta con l’inglese. Lo ha imparato durante gli undici mesi di campo profughi in Grecia, non ricordo dove di preciso. Ti assomiglia, ha i tuoi stessi occhi magnetici e profondi. Tuo marito ascolta, forse fatica a capire perché tu a tratti gli traduci qualche frase. Ti lascia parlare senza mai interromperti.

Uno dei due si affaccia con un altro uomo chiedendo un cartone di latte. Credo che sia uno scambio tra famiglie, perché poi torna con del tonno in scatola. Lui assomiglia al padre e tu ce lo confermi. Questi bambini che si muovono abbastanza liberamente all’interno del campo mi spaventano molto, molto più che lasciare andare mio figlio da solo per strada. Suppongo si muovano liberi solo la mattina, fino all’ora di pranzo perché tutti gli operatori delle diverse organizzazioni sono in giro. La sera e la notte immagino restino alle tende, anche perché il buio della notte, senza alcuna elettricità, soffoca ogni azione.

Mi dici che siete in viaggio da tre anni. Tre anni di vita lontano da casa, tre anni di strada: tutto più lento per amore dei tuoi figli, tutto più difficile perché per colpe di pochi siete diventati un tutto indistinto che fa paura. Mentre io credevo in questi ultimi tre anni di aver affrontato uno dei periodi più impegnativi e difficili della mia vita, improvvisamente tutto mi è sembrato sciocco! La stanchezza, la salute cagionevole, il lavoro… io ho una casa e le persone che amo accanto a me e le ho date per scontate. Non avete nessuno da raggiungere, siete soli. Vorreste arrivare in Germania, lo dicono tutti coloro con cui ho parlato, chiunque parla della Germania.

Tu sei sola. Hai solo la tua famiglia, ma una donna ha bisogno anche di una madre o di un’amica, soprattutto nei momenti difficili, quando per non crollare necessita di parlare con qualcuno, di una confidenza, di uno sfogo, da donna a donna. Hai tanto da raccontare, ma la tua mente fatica a ricordare, quasi per proteggersi da molti, tanti, troppi orrori visti. Ricordi le tappe fondamentali del tuo viaggio con l’aiuto del tuo figlio maggiore, che non ha cancellato nessun istante della sua vita purtroppo, ma vorrebbe, e ci spieghi che spesso ti parla di suicidio. Può una madre affrontare oltre alla fatica, alle umiliazioni, alla violenza, alla paura, anche questo? Nessuno psicologo che vi aiuti ad elaborare, solo la vita nuda e cruda, che incalza; e passa il tempo, gli anni per voi, e perdete tutto e tutti. Il telefono con le foto di casa è stato rotto, spaccato, in quel telefono c’eravate voi, quello che eravate, forse lo sguardo familiare di parenti e amici, attimi di vita insieme, di vita leggera.

Ora questo telefono che mi mostri contiene solo foto di un percorso faticoso.

Inshallah.

E ancora preghi e mi chiedi di pregare, ma ho un nuovo modo di pregare da oggi, si chiama denuncia. E ti ascolterò ogni giorno, scriverò la tua storia, perché sei esistita ed esisti, anche se non lo sai più. Majda.

Elena Cerutti, volontaria MAM Beyond Borders

– MAM Beyond borders ONLUS nasce come associazione nel gennaio 2014 con lo scopo di attuare progetti socio-sanitari sul territorio nazionale, in Paesi a risorse limitate e in cui sono in atto conflitti. L’Associazione vanta tra i suoi associati e volontari medici, ostetriche, infermieri che si dedicano ai progetti ad opera gratuita. Il fine è quello di assistere dal punto di vista medico, sanitario, sociale ed umanitario, realtà internazionali e/o nazionali che, per condizioni economiche o di disagio sociale, rendono necessario un intervento di sostegno.

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