Kabul, vogliono sangue e silenzio

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La loro telecamera era stata controllata tre volte, in altrettanti posti di blocco che la polizia aveva allestito dopo la prima esplosione intorno all’area colpita. Da quando nel maggio scorso la tecnica irachena ha fatto definitivamente la sua comparsa nel mattatoio di Kabul – il doppio kamikaze in sequenza per colpire soccorritori e giornalisti, quel giorno ne morirono in 9 – ormai è sempre più difficile e controllato l’accesso ai luoghi degli attacchi. Eppure queste misure di sicurezza non sono servite a nulla perchè la seconda esplosione è arrivata puntuale circa un’ora dopo la prima. Ha ucciso, tra gli altri, Samim Faramarz e Ramiz Ahmadi. Il primo aveva 28 anni, il secondo 23, lavoravano entrambi per Tolo Tv, la più importante televisione privata del Paese, purtroppo non nuova a questi lutti.
L’attacco firmato dall’ISIS, gruppo terrorista insediatosi nell’area est del Paese e sempre più feroce, non è solo la riprova di quanto instabile sia la situazione in Afghanistan ma anche di quanto importante sia l’obiettivo di massimizzare il terrore, mettendo a tacere la dinamica informazione locale, spingendo i giornalisti a barricarsi nelle redazioni fortificate, a non uscire in strada a raccontare la verità e la vita della gente.
Tutto ciò, purtroppo, accade nel silenzio dei media occidentali e nell’assoluta indifferenza politica e informativa verso quel Paese dove pure abbiamo versato soldi e un importante tributo di sangue.

Ogni volta che l’apocalisse afghana infila una curva che ne accelera la spirale, gli hazara diventano il primo bersaglio della violenza, un po’ per via dell’atavico odio tra sunniti e sciiti un po’ per l’intolleranza che spesso subiscono nella società afghana, dove vengono vissuti come appartenenti ad una classe minore.
E’ così che negli ultimi tempi, il quartiere di Dasht-e-Barchi è stato colpito da due drammatici attentati: contro gli studenti che si preparavano all’ammissione all’università; contro una palestra di lotta, mercoledì scorso.
Attentati vigliacchi che, questa volta, hanno raggiunto un nuovo picco di codardia e di macabra sofisticazione: la seconda esplosione è partita da un auto in sosta, controllata dalla polizia ma che pare fosse “jammata” cioè protetta da un dispositivo elettronico che è stato poi rimosso consentendo l’attivazione a distanza della carica. Come sempre, con la nuvola di polvere, detriti e rabbia che fatica a posarsi se non dopo giorni, conoscere altri dettagli e capire cosa è accaduto davvero è difficile. L’unica certezza è che la gente di Dash-e-Bache si è già organizzata con le armi per proteggere la moschea e ora vuole proteggere tutto il suo distretto con una milizia di quartiere. Sono gli echi della guerra civile che non riescono a lasciare la città un tempo giardino del Re angelo, respinti tra le alte cime dell’Hindo Kush dal quale a breve scenderà il gelo. Speriamo almeno la neve sappia restare immacolata e non sporcarsi di sangue


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