Tre bambini sulla schiuma dei giorni. “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker

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E’ l’altra America. Non l’altra America di frontiera, isolata e brutale, di Three Billboards outside Ebbing, né quella alleniana delle illusioni perdute di pseudointellettuali logorroici alla deriva che abbiamo visto in Wonder Wheel. E neppure quella posticcia e fumettistica di The Shape of Water, opera così politically correct da risultare stucchevole e sospetta.

E’ il lato miserevole di cui gli Stati Uniti si vergognano. La zona d’ombra dei marginali, dei soggetti borderline, di quelli che credono di essere sposati con Gesù, che vivono di espedienti, che abitano in mezzo alle cimici in motel dai nomi accattivanti come Magic Castle, dipinti di un irreale color viola. Coloro il cui unico traguardo è arrivare al giorno dopo e mettere insieme un pasto qualsiasi per sé e per i figli, cibo spazzatura che ingrassa senza nutrire.

L’assoluta originalità e freschezza del film di Sean Baker sta nella tenace volontà di mostrare questo microcosmo situato in un sobborgo della Florida usando la lente della percezione infantile. Per l’adorabile teppistella Moonee, e per i suoi amici Scooty e Jancey, grazie alla particolare capacità di trasfigurare e fantasticare propria dei primi anni di vita, persino miseria e appariscente kitsch suburbano diventano elementi di avventura, magia e irridente, innocente ribellione.

C’è incanto vero nei colori del cielo e delle palme, nell’arcolbaleno che invade l’intera volta celeste e che segnala la presenza di un tesoro difeso dagli gnomi, nei muri abbacinati dal sole contro i quali oziare senza un pensiero al mondo, storditi dal calore estivo, dalle pozzanghere che si formano durante scrosci improvvisi di pioggia, dai ‘safari’ in mezzo alle mucche che bivaccano nei prati spelacchiati, dai compleanni festeggiati di sera sul bordo di un’autostrada, con una pasta sormontata da un’unica candelina, guardando i fuochi artificiali lanciati chissà dove e per chissà quale ricorrenza. E sentiamo l’eccitazione palpabile dei bimbi durante le imprese allegramente vandaliche, come quella di dare fuoco a una casa abbandonata e scappare di corsa.

Come i surfisti, i tre bambini prendono l’onda. Bevono la schiuma dei giorni provocando gli inquilini del motel, o il pacato, protettivo custode tuttofare dell’edificio, un Willem Dafoe da antologia del cinema.

Non è un’umiliazione, bensì una piccola vittoria, estorcere ai passanti o ai turisti qualche spicciolo per godersi un gelato in tre. O accompagnare, come fa Moonee, una mamma troppo giovane e squilibrata (però innamorata della figlia) a vendere per strada profumi contraffatti per racimolare i soldi dell’affitto settimanale. Si prostituisce, Halley, la madre di Moonee, con la noncuranza di chi è abituato a considerare il proprio corpo soltanto uno dei tanti strumenti di sopravvivenza. Proprio quest’attività attirerà l’attenzione dei servizi sociali – che non forniscono aiuti, ma pretendono che i bambini siano cresciuti in maniera adeguata –.

Di fronte alle assistenti sociali arrivate al motel per condurla “temporaneamente” presso una famiglia migliore (persino i bimbi intuiscono che per la burocrazia le questioni temporanee tendono a diventare definitive), Moonee per la prima volta si sente indifesa. Fugge a perdifiato a casa dell’amica del cuore Jancey, nel Futureland motel, per un bye disperato che non riesce a pronunciare, travolta da un pianto che la mostra per ciò che è: una bambina di sei anni trascinata via dalla piena della disperazione. Come il piccolo Alëša, protagonista di un altro grande film di questa stagione: Loveless di Zvjagincev.

Jancey, con un gesto istintivo, la prende per mano e unite in una corsa che il regista accompagna con movimenti di macchina incerti, finalizzati a riprodurre il disorientamento delle due piccole amiche, si dirigono verso il tanto desiderato Castello del Walt Disney World per concedersi ancora un sogno. Forse l’ultimo.

luciatempestini0@gmail.com


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