Camorra, la banale narrazione della violenza

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di Gianluca Gatta

“Rapina”, “uccidere”, “sparare”, “ferito”, “colpo”, “prendere”, “arresto”, “raid”, “casa”, “clan”, “arma”, “pistola”.
Sono queste le parole che dominano la narrazione mediatica della violenza camorristica. Si tratta di termini che riguardano l’aggressione alla persona, ma anche alla “casa”, la cui violazione rappresenta un elemento di forte panico sociale.
Altri, pur strettamente accomunati ai precedenti, rientrano nel campo più specifico dell’azione militare. Una parola soltanto, invece, fa riferimento alla dimensione organizzata della violenza: il termine “clan”.
Questi sono alcuni dei dati emersi dall’analisi di 2890 articoli riguardanti eventi di violenza camorristica avvenuti nelle province di Napoli e Caserta e pubblicati nelle edizioni locali del quotidiano “Il Mattino” in un periodo di circa 3 anni, dal 2013 al 2016.
Lo studio fa parte di una ricerca più ampia sulle dimensioni socio-economiche della violenza camorristica, durata due anni, dal titolo: “The Use of Violence and Organized Crime. A socio-economic analysis of the case of Camorra clans in Campania”, coordinata dalla professoressa Monica Massari dell’Università di Napoli “Federico II”. I risultati dell’intero progetto confluiranno nel volume in corso di stampa curato da Monica Massari e Vittorio Martone, “Mafia Violence. Political, Symbolic, and Economic Forms of Violence in the Camorra Clans ”(Routledge, London-New York).
Nella selezione degli articoli non ci si è limitati a esaminare fatti chiaramente classificati dalla stampa come violenza organizzata di matrice camorristica (omicidi, incendi dolosi), ma anche tutti quegli eventi di criminalità diffusa e non organizzata che denotano atteggiamenti di sopraffazione (scippi, rapine, aggressioni, minacce) e caratterizzano i contesti sociali più ampi in cui la camorra opera.
Un momento specifico della ricerca ha riguardato l’analisi delle ricorrenze delle parole contenute nei titoli degli articoli. La narrazione mediatica è certamente complessa e articolata su più livelli, ma soffermarsi a osservare lo strato informativo più superficiale, veloce e immediato rappresentato dai titoli, cioè il livello più pervasivo dove si “gioca” la rilevanza soggettiva dell’informazione, ci fa cogliere le tendenze generali nella formazione di un senso comune sul fenomeno.
Le dodici parole elencate sopra ci dicono che la narrazione prodotta dai titoli fa emergere la violenza camorristica prevalentemente nella sua dimensione fisica e spettacolare, mentre le connessioni tra violenza e aspetti economici, sociali e politici del fenomeno camorristico sono quasi invisibili.
Se scorriamo la classifica delle parole più ricorrenti, ne troviamo altre 79 (il 25% del totale), molte delle quali rientrano nel campo semantico già illustrato dell’aggressione fisica e della guerra: “morire”, “agguato”, “assalto”, “bomba”, “vittima”. In questo gruppo iniziano, però, a emergere anche termini legati all’azione dell’autorità giudiziaria: “ergastolo”, “indagine”, “sequestro”; alle emozioni e ai luoghi – “paura”, “terrore”, “centro”, “gioielleria”, “rione”, “piazza” – e alla dimensione organizzativa ed economica della camorra: “faida”; “racket”; “droga”.
Compaiono, inoltre, i soggetti della violenza agìta e subita: “killer”, “boss”, “giovane”, “baby”, “carabiniere”, “pregiudicato”, “donna”, “polizia”, “anziano”, “sindaco”. C’è da notare come quasi la metà di queste parole rievochi le dimensioni del genere e della generazione.
La parola “donna” appare quasi il doppio delle volte rispetto a “uomo”. Il genere maschile, infatti, confluisce in categorie specifiche – boss, assassini, rapinatori – mentre quello femminile è espresso in quanto tale nel caso in cui siano donne ad agire la violenza.
Invece, la rilevanza dell’espressione “baby” – riemersa prepotentemente in queste settimane – non rappresenta una novità e richiama l’allarme sociale derivante dalla infantilizzazione del fenomeno della violenza camorristica a cui si è assistito a partire dai primi anni 2010.
Se le parole più ricorrenti ci permettono di cogliere i temi dominanti della narrazione, è altrettanto importante leggere i vuoti, ovvero quelle parole la cui scarsità è particolarmente significativa. L’intero campo semantico della politica e delle istituzioni, ad esempio, è quasi assente dai titoli presi in esame.
Lo stesso vale per gli aspetti economici e strutturali associabili al fenomeno camorristico: “mercato” “economia”, “ricchezza”, “clientelismo”, “tangenti”, “antistato”. Invece il termine “sistema”, utilizzato dai gruppi camorristici per autodefinirsi, manca del tutto.
Altrettanto scarsa è la presenza di parole relative al tessuto civico dei territori e alla lotta alla violenza camorristica, anche quando i testi degli articoli parlano di reazioni collettive al fenomeno. Termini più direttamente politici come “protesta”, “mobilitazione” e “lotta” compaiono appena, così come il termine “omertà”, connesso per opposizione a questi termini. Stessa sorte per la parola “mafia/mafie”, che potrebbe, invece, contestualizzare il fenomeno in un più ampio quadro interpretativo.
Un ultimo termine degno di nota per la sua scarsità è “emergenza”, un dato interessante se lo si confronta con il trattamento mediatico di tematiche che sono soggette a un’analoga costruzione sociale della paura ma continuano a essere narrate con toni emergenziali, come ad esempio il tema dell’immigrazione.
Dunque, la pervasività di un certo tipo di narrazione del crimine – fatto di corporeità e spettacolarizzazione della morte – ha l’effetto di banalizzare la violenza, incarnandola nel “corpo” sociale, normalizzandola e inchiodandola sullo sfondo della vita quotidiana degli abitanti di determinate aree.
Una tale ritualizzazione del racconto rischia così di totalizzare la percezione della violenza, appiattendo le sue dimensioni spazio-temporali e producendo un’assuefazione che finisce per avvicinarla sempre di più al campo ineluttabile della natura, piuttosto che dei fenomeni umani affrontabili politicamente.

Da mafie


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